Il modello del “fast fashion” si è evoluto: l’ “ultrafast fashion” è più veloce e più conveniente ma ha un prezzo umano ancora più alto. Quello di renderci complici, più o meno inconsapevoli, dello schiavismo di centinaia di migliaia di lavoratori invisibili. 

È notizia delle ultime settimane: nel trimestre che si è concluso lo scorso 31 agosto, la catena di abbigliamento svedese H&M (Hennes&Mauritz) ha registrato un importante calo degli utili pari a circa 49 milioni di euro rispetto al 2021.

Ma questo non è un segno della fine dell’epoca d’oro del “fast fashion”, piuttosto una sua evoluzione. È iniziata l’era dell’“ultrafast fashion”, e la capofila di questa nuova ondata è senza dubbio la cinese Shein, che nel 2022 ha aumentato le vendite al punto da diventare uno dei più grandi marchi di distribuzione di abbigliamento al mondo, “mangiando” il mercato dominato fino ad oggi da marchi come H&M e Zara.

Shein è stata fondata nel 2008 da Chris Xu, un esperto di big data e SEO, ma è solo di recente che ha reso solide le basi del suo impero. Gran parte del merito va a TikTok, non a caso un social cinese, dove il marchio è stato il più discusso nel 2020: sotto l’hashtag #SheinHaul, decine di migliaia di utenti facevano a gara a chi comprava di più, approfittando dei prezzi stracciati offerti dalla piattaforma e dal fatto che il reso è completamente gratuito e, anzi, in molti casi l’acquisto è addirittura rimborsato senza che venga chiesta la restituzione dell’articolo, perché semplicemente è più conveniente dei costi di trasporto.

Come si traduce in numeri questo successo? Nel 2021, Shein ha raggiunto 16 miliardi di dollari di fatturato e il titolo in Borsa è valutato dagli analisti come più alto di H&M e Zara messi insieme. Ma questo nuovo colosso proietta delle lunghe ombre: per esempio, nell’agosto dell’anno scorso Shein ha affermato pubblicamente che i suoi stabilimenti sono certificati dall’ISO, l’Organizzazione internazionale per la Standardizzazione. Notizia che la stessa ISO ha smentito e, anzi, successive indagini hanno mostrato situazioni ai limiti dello schiavismo, tanto che il Regno Unito ha giudicato Shein colpevole della violazione del Modern Slavery Act del 2015.

 

Il modello del “fast fashion”

Ma andiamo per ordine: cos’è il fast fashion? È la pratica che ha fatto la fortuna di brand di abbigliamento popolarissimi (come i già citati H&M e Zara ma anche Mango) che consiste nel produrre e vendere abiti di bassa qualità, con costi di produzione abbattuti, a prezzi molto ridotti. I costi bassi permettono ai marchi di rinnovare costantemente le loro collezioni, che vengono poi vendute in tempi altrettanto brevi.

L’ultrafast fashion, come già detto, fa un passo in avanti, implementando (proprio come fa Shein) il modello del test and repeat, prova e ripeti: l’azienda produce piccole quantità di ogni prodotto, a volte anche solo poche decine di migliaia di unità, spaziando tra stili diversissimi tra loro e rinnovando il proprio catalogo ancora più velocemente; in questo modo riesce a stimolare i propri clienti a cercare spasmodicamente le novità in lassi molto brevi di tempo.

Sulle conseguenze che questo modello di consumo ha sulla psiche dei clienti torneremo tra poco; prima, è bene parlare del grosso buco nero al centro della galassia del fast fashion, prendendo come esempio proprio Shein: l’azienda cinese non ha un ufficio stile ma si avvale di un software (d’altronde il suo fondatore, come accennato sopra, è un esperto informatico, non uno stilista) che scandaglia il web alla ricerca delle nuove tendenze, per scoprire cosa far produrre in tempi record ai tantissimi mini laboratori sparsi per la Cina. Parliamo di numeri da capogiro, con settemila nuovi prodotti al giorno, e da un punto di vista puramente teorico il margine di guadagno non dovrebbe esserci, pur riducendo all’osso costi di produzione e dei materiali, la cui qualità è bassissima. Eppure, Shein ha una valutazione in Borsa di 100 miliardi di dollari. Ciò sarebbe possibile solo con un volume di vendite vertiginoso, ed effettivamente così accade: basti pensare che la App di Shein è la più scaricata al mondo, superando addirittura Amazon.

 

Qual è il prezzo umano del fast (e dell’ultrafast) fashion?

Nel 2019, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha condotto un’inchiesta sullo sfruttamento minorile nell’industria della moda: il dato che è emerso è spaventoso, visto che sono 74 milioni i bambini sfruttati in tutto il mondo in lavori ad alto rischio, dovendo maneggiare sostanze chimiche per il trattamento dei tessuti, dannose per la salute, e macchinari altrettanto pericolosi. Non è una novità: già nel 2017 The Observer ha condotto un’inchiesta su quattro diverse fabbriche delle multinazionali di Nike, Asics, Puma e VF, scoprendo che più di 500 dipendenti sono stati ricoverati in ospedale a causa delle condizioni pessime di lavoro.

Infatti, anche i grandi brand hanno ceduto nel tempo al richiamo del fast fashion – più che altro obbligati dai loro avversari e per rimanere competitivi sul mercato. E uno degli aspetti centrali e più torbidi di questo modello produttivo è la delocalizzazione, ossia lo spostamento della produzione in paesi come India, Bangladesh o Pakistan, dove il monitoraggio dei diritti dei lavoratori è inesistente o quasi.

In Bangladesh, per esempio, non esiste un ordinamento legislativo che regoli l’orario minimo di lavoro e gli operai delle fabbriche tessili della grande industria della moda (chiamate “Sweat Shops”) lavorano fino a 12 ore al giorno, per un salario che va da 1,90 a 2,40 dollari al giorno. Questi orari e salari da fame si accompagnano a veri e propri sistemi schiavisti, riportati nel documentario “Fashion Victims” di Sarah Ferguson che ha mostrato la vita all’interno di una fabbrica del Bangladesh: porte sbarrate con le assi per non far uscire gli operai per una pausa, violenza fisica (soprattutto a danno delle donne, che compongono la maggioranza della forza lavoro) per punire chi lavora troppo lentamente.

Tornando a Shein, i suoi mini laboratori sono stati oggetto di un’inchiesta di Public Eye, ONG con sede a Lugano, in Svizzera, che svolge un lavoro di monitoraggio affinché siano rispettati i diritti umani sul lavoro. Come ha spiegato il portavoce David Hachfeld, “si tratta di numerose piccole officine, con corridoi e scale bloccate da vestiti e rotoli di tessuto. Inoltre non ci sono uscite di emergenza che consentirebbero ai lavoratori di evacuare i luoghi in caso di incendi”.

Public Eye, intervistando vari dipendenti di queste fabbriche, scopre che le ore di lavoro arrivano fino a 11 al giorno e non esiste nessun contratto o contributo previdenziale. Violazioni palesi non solo dei diritti umani ma persino della stessa legge cinese, che impone il limite massimo di 40 ore a settimana e 36 ore di straordinari al mese.

 

I pericoli per l’ambiente e per la salute

Gli effetti negativi del fast fashion non si limitano alla lesione dei diritti dei lavoratori, ma anche della loro salute: in questi stabilimenti è tipica la pratica del sandblasting, ossia lo schiarimento dei tessuti denim tramite sostanze chimiche che possono provocare silicosi, una malattia polmonare mortale. Tra i marchi accusati di utilizzare il sandblasting ci sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, anche se negli ultimi anni hanno tutti dichiarato di aver abbandonato questa pratica. Ma un’inchiesta del 2021 della Cbs Canada sui prodotti di tre marchi d’abbigliamento fast fashion (Shein, Ali Express e Zaful) ha rilevato che un articolo su cinque presenta alte concentrazioni di sostanze chimiche, tra cui piombo, PFAS e ftalati, in quantità di gran lunga maggiori a quanto consentito dai vari ordinamenti internazionali.

Ma i danni del fast fashion affondano le loro radici ancora più in profondità: i ritmi elevatissimi di produzione non possono infatti tenere conto dei cicli biologici della natura e delle coltivazioni di quelle piante da cui vengono ricavate le fibre per i tessuti, come il cotone. La conseguenza è l’utilizzo massiccio di OGM per far germogliare prima le piante. Ma questi “super semi” sono molto aggressivi e lì dove vengono piantati nulla può più crescere in maniera naturale: gli ecosistemi di intere nazioni sono quindi ridotti a una dipendenza da questi semi ibridi. Dipendenza che si allarga fino ai lavoratori dei campi, i quali diventano schiavi delle multinazionali che a loro volta detengono il monopolio sull’utilizzo di questi semi e che possono modificare i prezzi in modo arbitrario, abbattendo i salari dei contadini con conseguenze disumane. In India, dal 1995 ad oggi, 300 mila lavoratori agricoli si sono tolti la vita. La maggior parte di essi lavorava nell’industria del cotone.

Il circolo del fast fashion si autoalimenta grazie all’influenza psicologica sui consumatori, che sono a loro modo anch’essi “vittime” di questo sistema: complice il prezzo stracciato d’acquisto, le persone comprano abiti che vengono spesso indossati solo per poche settimane per poi essere gettati e sostituti da nuovi. L’individuo entra in un circolo vizioso di consumismo dal quale difficilmente riuscirà ad uscire. E la congiuntura economica particolarmente negativa non aiuta: secondo l’Istat, in Italia sono in condizione di povertà assoluta più di 1,9 milioni di famiglie e circa 5,6 milioni di individui. I salari in Italia sono tra i più bassi d’Europa e un individuo appartenente alla classe media non ha molte altre opzioni di acquisto se non i marchi di fast fashion.

 

Quali soluzioni?

Una possibile soluzione è il second hand, un mercato che sta a sua volta cavalcando una curva in salita: una ricerca realizzata dal Boston Consulting Group (BCG) e Vestiaire Collective ha mostrato che il mercato dell’usato rappresenta già dal 3% al 5% del settore dell’abbigliamento, e le stime di crescita sono ottime, aiutate dal costo della vita sempre più alto che spinge a trovare soluzioni che uniscano la convenienza a una qualità che il fast fashion non può fornire: la durata.

I capi d’abbigliamento di seconda mano, infatti, resistono più a lungo di un abito acquistato su Shein e nel lungo periodo il risparmio per il consumatore è maggiore. A guidare questa tendenza – e ciò rappresenta una nota di speranza per un futuro più consapevole – è la Gen Z: sono i giovanissimi i più propensi ad acquistare (31%) e vendere (44%) articoli di seconda mano, seguiti dai Millennial.

 

Leggi anche:  Gli strumenti per il monitoraggio dei dipendenti sono sempre più comuni