Ogni anno Spotify utilizza i nostri dati per mostrarci le canzoni, gli artisti e i generi musicali che abbiamo preferito negli ultimi 12 mesi. Si tratta dello ‘Spotify Wrapped’ ed è sicuramente una delle trovate di marketing più ingegnose degli ultimi tempi. Allo stesso tempo, per molti lo #SpotifyWrapped di quest’anno è stata l’occasione per mostrare le ‘ingiustizie’ della piattaforma
“Se il 2021 fosse un film tu saresti il protagonista. Nel 2021 hai ascoltato ben 24.061 minuti di musica, più del 91% di tutti gli ascoltatori in Italia”. Recita così il mio Spotify Wrapped di quest’anno ed è indubbio che quell’altissima percentuale mi abbia fatta sentire speciale e unica. Prima reazione: condivisione del risultato nelle Instagram Stories per ‘vantarmi’ con gli altri utenti di quanto io sia un’assidua ascoltatrice di musica e podcast.
Sono partita da un esempio personale per raccontare quella che, a detta di molti esperti, è una delle campagne di marketing più riuscite da dicembre 2017, anno dal quale la piattaforma di streaming musicale più diffusa al mondo presenta questo resoconto annuale ad ogni utente iscritto. Da inizio dicembre basta entrare sull’app per vedere una serie di immagini coloratissime e dedicate soltanto a noi con le quali Spotify, rivolgendosi a noi in prima persona, ci mette al centro dell’attenzione e definisce chi siamo attraverso i nostri gusti musicali.
Una geniale campagna di marketing
Ma cosa colpisce così tanto gli utenti? Come spiega bene la redazione di Marketing Espresso, gli elementi più rilevanti sono “colori, tone of voice, esperienza visiva, ovvero come in maniera empatica si rivolge a te (Spotify, ndr) facendoti sentire speciale, unico, come se fosse un amico di vecchia data”. Questo ci fa sentire estremamente coinvolti nella piattaforma, la quale ci porta indirettamente a fare un “paragone di massa” capace addirittura di far scaricare l’applicazione anche ai più scettici, per pura curiosità o per alleviare la propria FOMO (‘Fear of missing out’).
Non è un caso infatti che, dal 2017 in poi, i download dell’app siano aumentati del 21% dopo l’introduzione del Wrapped. Il giorno in cui Spotify rilascia Wrapped – e in realtà anche per gran parte di tutto il mese di dicembre – i social network si riempiono di screenshot in cui gli utenti mostrano fieri i risultati ottenuti su questa piattaforma. Non è certo un caso considerato che la stessa piattaforma di streaming non nasconde la sua volontà di rendere la campagna virale, con una bella call to action in evidenza che invita a “condividere” i propri risultati.
Il boom sui social network e gli influencer
Sul solo TikTok, l’hashtag dedicato a Spotify Wrapped ha fatto registrare quasi 60 milioni di visualizzazioni in una settimana. Wrapped è stato menzionato 1,2 milioni di volte su Twitter e diversi esperti del settore si dicono “non stupiti” se il risultato possa essere addirittura il triplo, considerato che Spotify ha realizzato delle grafiche perfette per essere condivise tra le stories di Instagram. E così gli utenti diventano essi stessi parte della strategia di Spotify e da semplici spettatori si diventa content creator e influencer della propria ‘bolla social’, regalando pubblicità gratuita alla piattaforma di streaming.
Questa condivisione ovviamente non viene fatta soltanto da persone ‘comuni’, ma anche dagli stessi artisti e podcaster presenti sull’app che, allo stesso modo degli utenti, non resistono dal condividere con i propri fan i minuti di ascolto delle loro hit e i successi dei loro album. Infine, un’altra motivazione induce alla condivisione di Spotify Wrapped è che facendolo ci si sente più vicini e di supporto al nostro o la nostra artista del cuore.
Spotify usa gli artisti come merce per i suoi guadagni
Ma sono alcuni artisti a farci notare che, in realtà, non è proprio così. “Hai ascoltato 2,954 artisti diversi e loro hanno guadagnato 0,0043 dollari per ascolto. Ovvero niente”. A scriverlo in un lungo post su Instagram è stato Alberto Guidetti, meglio conosciuto come Bebo de Lo stato sociale. “Spotify fa schifo”, si legge nella slides seguente, dove l’artista scrive che, in media, un musicista guadagna 0,003 euro per ogni canzone ascoltata in streaming, contro i 2,5 miliardi che guadagna Spotify in soli tre mesi. Sempre stando ai dati ricavati dal musicista, sono necessari 400.000 stream per far guadagnare 1.200 euro a un musicista presente su Spotify. “Quando è etico pagare l’arte in visibilità? Zero”, continua Guidetti.
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Possiamo dire che gli artisti vengono trattati come merce da Spotify e da altre piattaforme di streaming? “È una lettura marxista ma sì, il concetto è questo. Per loro sei davvero merce perché le piattaforme non sono attori di produzione e usano gli artisti come catalogo. Avere un catalogo così ampio (come vale per Spotify, ndr) permette loro di fare profitto sulle spalle di chi paga (utenti) e di chi produce (artisti)”, spiega Bebo intervistato da Dealogando.
Le alternative a Spotify
Tra le alternative più etiche a Spotify esistono piattaforme come Bandcamp, che garantisce agli artisti un sostegno economico diretto, senza intermediari ed elaborando in meno di 48 ore i pagamenti agli artisti, ai quali trattiene circa il 15% su ogni vendita digitale e il 10% su ogni acquisto merce. “Non è assimilabile però a una vera piattaforma di streaming quanto ad uno store online”, precisa Guidetti, facendo invece l’esempio di Audius, una piattaforma che lavora sulla blockchain e che punta a dare agli artisti più potere su come la loro musica viene monetizzata e consentire loro di connettersi direttamente con i fan.
Fondata nel 2018, Audius ha superato i 5,3 milioni di utenti unici a luglio 2021 ed è gestita da una community open source di artisti, fan e sviluppatori. Tuttavia, lavorando con la blockchain il problema di Audius per il momento è quello della sostenibilità ambientale. Secondo l’indice Digiconomist, che tiene traccia dell’impronta ambientale dei bitcoin, ogni anno le transazioni di questa criptovaluta richiedono un fabbisogno energetico di circa 130 terawattora.
La lotta degli artisti come i riders
“Secondo me una prospettiva interessante potrebbe essere osservare quello che succede in altri settori. Parlo della lotta dei riders per i loro diritti: sono persone legate a piattaforme sulle quali non hanno potere”, propone sempre Bedo, spiegando che però nel settore musicale non esiste così tanta ‘compattezza’ tra artisti, perché i più noti e famosi difficilmente si iscrivono ad associazioni di tutela o simili. “Se da un lato è difficile immaginarsi la costruzione di un’alternativa alle grosse piattaforme, una di queste potrebbe essere costruirsi uno Spotify che sia di proprietà e finanziato da chi produce, smettendo così di avere delle intermediazioni. Una sorta di Spotify italiano. Ma capisco sia difficile…”, ammette il membro della band bolognese.