Il 1 agosto e il 1 settembre scadono le attuali disposizioni sullo smart working in Italia: stop al lavoro agile al 100% e via agli accordi tra aziende e dipendenti per concordare le modalità di lavoro da casa. Ma dopo due anni nessuno è disposto a tornare ai vecchi modelli: servono nuove formule che tengano conto delle nuove necessità dei lavoratori.
Le modalità di smart working come le abbiamo conosciute finora stanno per cambiare: dal 1 agosto, infatti, terminerà la possibilità di lavoro agile al 100%, che era stata introdotta dal cosiddetto Decreto Riaperture per le categorie più a rischio di contagio e i dipendenti del settore privato e dal 1 settembre le aziende che intendono concedere la possibilità di smart working ai dipendenti potranno farlo solo con un accordo formale tra le parti siglato nell’atto dell’assunzione o in un momento successivo ma comunque precedente all’inizio del lavoro agile.
L’emergenza è la nuova normalità
Emergenza finita quindi? In realtà, come sappiamo, la pandemia di Covid-19 non è terminata (anzi, siamo nel pieno di una nuova ondata di contagi anche se ora come ora l’attenzione è monopolizzata dalla campagna elettorale) e da febbraio 2020 il mondo è attraversato da continue emergenze: non solo il virus ma anche la guerra in Ucraina, la crisi climatica e quella energetica. Parlare di “fine dell’emergenza” è ormai utopistico, piuttosto bisogna imparare a convivere con questa nuova normalità.
Per questo, appaiono particolarmente centrate le parole di Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working: “È necessario costruire il futuro del lavoro sul vero Smart Working, che non è una misura emergenziale, ma uno strumento di modernizzazione che spinge a un ripensamento di processi e sistemi manageriali all’insegna della flessibilità e della meritocrazia, proponendo ai lavoratori una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati”.
Bisogna, insomma, far sì che il lavoro si adatti ai tempi complessi che l’umanità sta attraversando; questo si traduce in una maggiore sostenibilità ed elasticità per i lavoratori, che negli scorsi due anni hanno potuto constatare come il lavoro agile porti effettivi vantaggi e benefici economici e fisici.
L’indagine dell’OCSE
Parlano i numeri: l’87% dei dipendenti, secondo uno studio dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) trova beneficio nella possibilità di evitare il tragitto giornaliero verso il luogo di lavoro. A pari merito troviamo anche la possibilità di conciliare il lavoro con altri impegni familiari. Infine, l’82% degli intervistati nota la flessibilità nell’organizzazione del proprio calendario giornaliero.
Ma il lavoro agile, sebbene in un primo momento visto con sospetto (se non apertamente osteggiato) dalle aziende e da certi politici (risuonano ancora le parole del ministro Brunetta secondo cui lo smart working è “fare finta di lavorare”), è riuscito a convincere anche i più scettici: sempre dallo stesso studio emerge che il 60% dei datori di lavoro è convinto che lo smart working porti i lavoratori a lavorare di più e in maniera più produttiva. Inoltre, il 45% vede la possibilità di reclutare talenti da un bacino più ampio.
Lo smart working costa di più?
Sia lavoratori che imprese (le seconde, ovviamente, in misura maggiore rispetto ai primi) sono comunque più favorevoli ad un modello ibrido che allo smart working “totale”: la preoccupazione principale dei datori è che possa venire meno il lavoro di squadra e la collaborazione all’interno dei team. Questi temono inoltre che i dipendenti si identifichino meno con l’azienda (70%) e imparino meno che sul luogo di lavoro (69%).
I lavoratori, da parte loro, oltre al timore che il lavoro lontano dalla sede dell’azienda si traduca in un allungarsi degli orari d’ufficio (e per questo è fondamentale ribadire il diritto alla disconnessione), nutrono notevoli preoccupazioni legate ai costi energetici: lavorare da casa implica un maggiore dispendio di energia e la guerra in Ucraina e la conseguente inflazione pesano in maniera non indifferente sui portafogli degli italiani.
Secondo un’analisi condotta da Selectra, un lavoratore in smart working nel mercato tutelato spende in media 17 euro in più per la luce e 39 euro in più per il gas. Al momento, l’unico modo rimborsare, senza pagare tasse, il lavoratore è calcolare la quota di costi risparmiati dalla società. Ma non c’è ancora una normativa chiara e questo sarà sicuramente uno dei nodi da sciogliere per assicurare la possibilità di lavoro agile anche in futuro.
Perché è ormai assodato che indietro non si torna: lo smart working non è più il futuro del lavoro, ma è il suo presente. E le soluzioni per venire incontro alle necessità di lavoratori e imprese vanno cercate nel solco di questa constatazione.
Le nuove proposte
Tra le possibilità c’è sicuramente quella di incrementare il numero dei coworking sul territorio oppure di immaginare formule di “autogestione” del lavoro: l’azienda padovana Velvet Media, ad esempio, ha eliminato l’orario di lavoro consentendo massima flessibilità ai dipendenti anche in tema di ferie e permessi (senza doverli chiedere).
C’è poi la cosiddetta “settimana corta”: in Europa la stanno sperimentando Spagna e Islanda, mentre il Belgio ha addirittura una specifica legge in questo senso: ogni lavoratore ha diritto alla settimana corta a una redistribuzione delle ore su 4 giorni invece di 5.
Come procederà l’Italia, soprattutto alla luce del prossimo risultato elettorale, lo vedremo nei prossimi mesi. Sicuramente bisognerà tenere conto del fatto che, in base ai dati di un’indagine condotta dell’Associazione italiana per la direzione del personale, circa il 58% delle aziende ha dichiarato difficoltà ad assumere o trattenere i dipendenti se non viene garantito lo smart working.
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