Sul lavoro tendiamo ad essere spaventati dalla parola “responsabilità”, soprattutto se qualcosa va storto e ci riguarda. Spesso, infatti, in molti non si lasciano sfuggire l’occasione di scaricare la colpa sugli altri. Sono le stesse persone che fanno fatica a chiedersi: “E se il problema fossi io?”

Ammettere di aver commesso un errore, accettare la propria fallibilità e gestire le conseguenze della propria inadeguatezza sono virtù sempre più rare in un mondo dove è diventato facilissimo trovare qualcuno, tra influencer sui social o amici nel mondo reale, sempre pronto ad assicurarci che no, la colpa non è nostra, sono gli altri ad aver sbagliato. Ma questa tendenza alla deresponsabilizzazione compulsiva può diventare un grave problema, sia a livello personale che lavorativo.

Lo psicologo Wayne Walter Dyer sosteneva che “dare la colpa ad altri è un piccolo e pulito meccanismo che puoi usare ogni volta che non vuoi prenderti la responsabilità per qualcosa nella tua vita”. Ma chi sono “gli altri”? Possono essere i colleghi di lavoro, spesso in una posizione subalterna, oppure la colpa può essere scaricata in modo generico sull’ambiente lavorativo “tossico”, aggettivo il cui significato sta sbiadendo a causa dell’abuso che se ne fa: sono “tossici” i colleghi, i partner, la società, le aziende, lo Stato, la famiglia. Ma se si inizia a considerare tutto come una possibile giustificazione per le proprie mancanze, si perde un’occasione per confrontarsi con sé stessi, con i propri limiti e fallimenti.

 

Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno si sveglia

Questa frase di Jung è un prezioso consiglio per raggiungere una sana consapevolezza di se stessi, delle proprie capacità tanto quanto della propria fallibilità; una consapevolezza  necessaria a vivere l’ambiente lavorativo con serenità, la quale viene invece messa a repentaglio proprio da questo reiterato atteggiamento di rifiutare le proprie responsabilità. Chi cerca ossessivamente di scaricare le proprie colpe sugli altri potrebbe, infatti, correre il rischio di diventare l’elemento “tossico” del proprio ambiente di lavoro (senza contare che potrebbe occupare la stessa quantità di tempo per risolvere i problemi che ha creato). Non solo: non essere in grado di mettersi in discussione significa assumere un pensiero dogmatico, nemico di qualsiasi innovazione, che condanna all’immobilismo.

Attenzione però: questo non vuol dire che le criticità e i problemi sul posto di lavoro non siano all’ordine del giorno. È vero, ad esempio, che l’Italia è il paese con i salari più bassi d’Europa; è vero che la classe dirigente italiana, composta prevalentemente da appartenenti alla Generazione dei Baby Boomer, stenta a passare il testimone, salvo poi lamentarsi che “i giovani non hanno voglia di lavorare”; sono realtà i tirocini non pagati, i contratti in nero, le molestie e il bullismo sul luogo di lavoro. Ma esiste una differenza tra ciò che si può controllare e ciò che invece accade “fuori da noi”, di cui non abbiamo responsabilità (e di cui, spesso, siamo vittime).

 

Deresponsabilizzazione: l’arte dello scaricare la colpa

Il concetto di Locus of Control (letteralmente “luogo di controllo”) ideato dallo psicologo statunitense J.B. Rotter, si riferisce alla valutazione soggettiva dei fattori cui si attribuisce la causa di eventi, fatti ed esiti. Le persone caratterizzate da locus of control interno considerano gli eventi della loro vita come conseguenti alle proprie azioni, mentre gli individui con prevalenza di locus of control esterno ritengono che gli eventi, esiti e risultati siano principalmente influenzati da forze esterne, meno o per nulla controllabili.

Questi ultimi sono coloro che più frequentemente tendono a scaricare sul prossimo le proprie responsabilità, identificando “gli altri” come causa principale dei propri errori. Chi tende ad auto-assolversi sviluppa una vera e propria “arte” del colpevolizzare colleghi e collaboratori: di solito, infatti, queste persone si dimostrano in grado di compiere un’accurata analisi delle situazioni, individuandone criticità, limiti e potenzialità, finendo però immancabilmente con l’attribuire le cause di ogni fallimento o mancato successo esclusivamente all’esterno.

Sebbene questa sindrome della deresponsabilizzazione possa risultare un tratto caratteriale congenito, bisogna anche ammettere che determinate tendenze della società moderna lasciano spazio a pensieri di auto-assolvimento. Come detto in principio, è molto facile trovare “scappatoie” per fuggire le proprie responsabilità: internet è colmo di pagine, siti, blog e video tutorial che cercano di convincerci che è responsabilità esclusiva della società, dell’azienda, in generale del mondo esterno gestire le nostre mancanze e criticità. Questo provoca due effetti: il primo, come già detto, è la perdita di significato: se tutto diventa “tossico”, come fare a capire cosa lo è davvero e cosa invece è una giustificazione?

In secondo luogo, questo atteggiamento di auto-assolvimento va a modificare il modo in cui pensiamo al concetto stesso di lavoro: se l’ambiente lavorativo è considerato aprioristicamente un nemico e causa di ogni problema della nostra vita, cambiare lavoro servirà a poco. Ciò che serve è ricercare all’interno di se stessi, tramite la terapia o l’autoanalisi, le ragioni di un malessere che, nonostante il cambiamento dei contesti, continua a perseguitarci. Indagare sulle proprie responsabilità ed essere in grado di mettersi in discussione significa, tra le altre cose, essere disposti a migliorare. Ma, come sosteneva lo psicologo statunitense Carl Rogers, padre fondatore della Psicologia Umanistica, “la sola persona che non può essere aiutata è quella che getta la colpa sugli altri.”

 

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