Per via del boom di OnlyFans sempre più persone, anche giovanissime, scelgono di condividere video e foto hard online, allettate da una promessa di facili guadagni. Ma non è un lavoro esente da rischi e soprattutto, in Italia, chi lavora col sesso vive in un limbo di indeterminatezza

Nelle ultime settimane è stata molto commentata la storia di Ilaria Rimoldi, 25enne originaria di Castelnuovo del Garda, cui il parco divertimenti di Gardaland dove lavorava come hostess non ha rinnovato il contratto perché, in diretta alla trasmissione Zona Bianca lo scorso 29 agosto, mentre indossava una maglietta con l’immagine del parco, ha parlato della sua seconda occupazione: la donna, infatti, pubblicava foto intime sulla nota piattaforma di condivisione di contenuti OnlyFans.

Rimoldi ha spiegato al Corriere del Veneto che lo stipendio da hostess non le bastava per vivere dignitosamente, e quindi ha deciso di arrotondare condividendo foto in lingerie e riscuotendo un certo successo online. Ma nei contratti che Gardaland fa firmare ai suoi dipendenti è indicato che non è possibile associare il logo dell’azienda ad altre attività che non siano in linea con la vocazione familiare del Parco.

La storia di Ilaria Rimoldi (che presenta, comunque, diverse incongruenze tra le versioni offerte dalla ragazza e quella della Direzione) ha riaperto un dibattito sul sex work e sullo status delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso in Italia, un tema molto divisivo perché tocca diversi punti che hanno a che fare con la dignità dei lavoratori ma soprattutto con una certa morale che spesso impone uno stigma infamante su chi lavora con il sesso. La domanda di fondo è: il sex work può essere considerato un lavoro a tutti gli effetti?

 

La storia del sex work in Italia

Per sex work, termine ideato dai movimenti di liberazione sessuale degli anni Settanta, si tende di solito a indicare quella che più comunemente viene chiamata “prostituzione”, ossia l’offrire prestazioni sessuali a pagamento, anche se tecnicamente esistono delle differenze. La storia della prostituzione è parallela a quella della civiltà umana (non a caso si dice che sia “il lavoro più vecchio del mondo”) e ha quasi sempre riguardato in maggioranza le donne – anche se gli escort uomini, comunemente chiamati gigolò, sono sempre esistiti – e si è sempre accompagnata a una sorta di “doppia morale”; in pochi desiderano davvero che la prostituzione sparisca del tutto, ma è comunque considerata qualcosa da tenere relegata agli angoli delle strade o nelle case di tolleranza, comunemente note come “case chiuse” o “bordelli”, svolta da donne molto povere e spesso schiavizzate dai “protettori”, uomini che di fatto possiedono il corpo delle prostitute, ne gestiscono gli appuntamenti e le “puniscono” nel caso in cui cerchino di fuggire oppure di tenere per sé il denaro guadagnato.

Un momento decisivo nella storia della prostituzione italiana è stata la pubblicazione, nel 1955, del libro “Lettere dalle Case Chiuse” della giornalista Carla Voltolina e della senatrice Lina Merlin, che darà in seguito il nome all’omonima legge del 1958 che sancì la chiusura delle case di tolleranza e introdusse i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione.

Il libro di Voltolina e Merlin gettò un faro su una situazione di degrado in cui vertevano le prostitute italiane, costrette a vivere e lavorare in condizioni igieniche disastrose oltre che vittime di continui abusi e violenze, senza contare il numero altissimo di aborti clandestini.

Ci si muoveva però in un contesto molto diverso da quello attuale, e nell’Italia e nel mondo odierni prostituzione e sex work non si riferiscono allo stesso fenomeno: la prostituzione criminosa è ancora una piaga sociale e secondo il Codacons il “mercato” del sesso consta in Italia di 90 mila operatrici stabili, di cui 9 mila sono minorenni e più della metà (il 55%) sono straniere che provengo dall’Est Europa o dall’Africa. Ma esiste una sostanziosa minoranza – circa 20 mila donne, sempre secondo il Codacons – che offrono prestazioni sessuali in maniera volontaria e occasionale: mancano quindi quegli elementi di costrizione e ricatto che sono storicamente legati alla prostituzione “classica” ma, proprio a causa della legge Merlin le sex worker sono costrette a lavorare in clandestinità.

La legge infatti non condanna l’atto di vendere prestazioni sessuali (in Italia non è un reato fare sesso in cambio di denaro), ma chi “favorisce” la prostituzione. La Corte di Cassazione con la sentenza n.33160 del 31 luglio 2013 ha chiarito che il reato di favoreggiamento riguarda “chiunque avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa od altro locale, li conceda in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione” e, inoltre “chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si danno alla prostituzione”.

In altre parole, per citare Pia Covre, ex sex worker e ad oggi attivista per i diritti delle lavoratrici del sesso, la Legge Merlin “non ha solo abolito la prostituzione, ma l’ha relegata nell’illegalità. Il reato di favoreggiamento della prostituzione impedisce alle lavoratrici e ai lavoratori del sesso di lavorare al chiuso insieme, e anche di frequentare locali pubblici per cercare clienti, perché i gestori rischiano di perdere le licenze. Sono limiti che discriminano le persone che fanno questo lavoro”.

Oggi il sex work è un fenomeno complesso, tanto che per “prestazione sessuale” si intendono molte più pratiche che vanno dal rapporto “classico” alla pubblicazione di fotografie intime (come nel caso di Ilaria Rimoldi), oppure dalle videochat erotiche alla soddisfazione di particolari gusti sessuali. Un’enorme influenza nei cambiamenti avvenuti nel mondo del sex work l’ha avuta sicuramente OnlyFans, piattaforma di condivisione di contenuti a pagamento nata nel 2016 e che negli ultimi anni ha preso sempre più piede soprattutto in seguito al periodo pandemico, quando il sex work era praticamente impossibile a causa del virus e dei lockdown.

 

Come funziona Onlyfans?

OnlyFans, ideato dall’imprenditore inglese Tim Stokely, non nasce come sito porno, ma come semplice piattaforma in cui i content creator possono caricare qualsiasi tipo di foto o video e settare delle tariffe per consentire la loro visualizzazione. Non possedendo una policy sui contenuti molto restrittiva, era solo questione di tempo prima che gli utenti cominciassero a pubblicare video pornografici molto espliciti, ovviamente a pagamento.

Ad oggi OnlyFans conta oltre 170 milioni di utenti registrati, di cui 1 milione di creator. Nel 2020 ha generato 2 miliardi di dollari in vendite e registra circa 200 mila nuovi utenti ogni 24 ore e da 7 mila a 8 mila nuovi creator ogni giorno. La stragrande maggioranza dei contenuti sono pornografici tanto che, quando nel 2021 OnlyFans aveva annunciato che avrebbe bandito questo tipo di video e foto, in molti erano rimasti perplessi, dato che rappresentano il cuore del business della piattaforma (che infatti è tornata rapidamente sui propri passi).

Per visualizzare qualunque contenuto su OnlyFans bisogna pagare un abbonamento mensile, che va da un minimo di 4,99 a un massimo di 49,99 dollari al mese. Inoltre, i creator possono offrire video “personalizzati” su richiesta dei fan, e farsi pagare fino a un massimo di 100 dollari per contenuto. Infine, è possibile dare delle “mance” ai creator, per un massimo di 200 dollari.

La piattaforma trattiene fino al 20% dei guadagni dei creator, una cifra non da poco, ma nonostante questo sono tante le storie di persone che si sono arricchite grazie a OnlyFans: nel 2021 il New York Times ha stimato che alcuni creator arrivano a guadagnare fino a un milione di dollari l’anno.

Cifre così alte ovviamente non riguardano tutti, ma se un profilo ha successo i guadagni sono piuttosto alti: uno dei profili italiani più noti è quello di Alexia, 24 anni, che ha dichiarato di aver guadagnato solo nel 2020 oltre 204 mila dollari, cioè circa 194 mila euro.

Per avere un profilo di successo bisogna impegnarsi parecchio e non solo nella creazione di contenuti: in realtà, gran parte del lavoro è di promozione che avviene su altri social, soprattutto Twitter. È questa la ragione per cui intorno a OnlyFans sono fiorite parecchie agenzie che gestiscono i profili dei creator più famosi, addirittura rispondendo ai messaggi in chat al posto loro.

Ovviamente essere già conosciuti nel mondo del porno aiuta e, come già accennato, la pandemia ha definitivamente convinto molte lavoratrici del sesso a trasferirsi definitivamente su OnlyFans: per fare un esempio, la nota pornoattrice italiana Malena ha dichiarato che da quando ha aperto il profilo su Onlyfans guadagna circa 10 mila euro al mese.

Per le lavoratrici del sesso OnlyFans presenta moltissimi vantaggi: prima di tutto sono loro a creare i contenuti, di solito nella loro abitazione o comunque in luoghi di loro scelta. Sono anche loro a scegliere i partner con cui avere rapporti per le cosiddette “collaborazioni” e soprattutto, tolti i soldi trattenuti dalla piattaforma, i guadagni sono interamente loro, senza altri intermediari. Per le attrici porno professioniste è un grosso vantaggio non dover dipendere dalle case di produzione di film hard: secondo Tasha Reign, attrice e regista statunitense di film per adulti, il mondo del porno è molto discriminante per le donne, soprattutto per il maschilismo imperante che tende a “oggettificare” il corpo femminile e anche perché è molto più difficile per una donna che ha lavorato nel porno inserirsi nel mondo del lavoro rispetto a un uomo. Inoltre, un grosso problema è legato alle denunce di violenze sessuali o di revenge porn, che a volte vengono considerate meno credibili se arrivano da un’attrice porno, ma che avvengono più spesso di quel che crediamo; come ha dimostrato il grosso scandalo che ha investito il sito PornHub nel 2021, quando si scoprì che tantissimi contenuti erano caricati senza consenso.

Ma è sbagliato pensare che OnlyFans non sia esente da pericoli: prima di tutto, caricare materiale intimo online è sempre un rischio perché non si può mai avere la sicurezza che foto e video non vengano diffusi contro la volontà dei creator. Inoltre non è raro che alcuni “fan” siano troppo insistenti fino a diventare aggressivi e a trasformarsi in veri e propri stalker. Come ha spiegato Elettra Arazatah, escort italiana che lavora a Londra, “come sex worker dovremmo informare le ragazzine che iniziano con questi lavori senza sapere cosa stanno facendo, e che potrebbero infilarsi in situazioni pericolose senza supporto”.

 

La questione morale

Le parole di Elettra Arazath sembrano quasi profetiche se pensiamo alla storia di Ilaria Rimoldi: la ragazza sicuramente ha sottovalutato le conseguenze della sua seconda professione, e si è inoltre ritrovata sotto il fuoco incrociato mediatico, particolarmente acceso quando si tocca il tema del sex work in Italia.

Le donne lavoratrici del sesso (ancora una volta gli uomini soffrono molto meno questo stigma) nell’immaginario comune o sono “vittime” di un sistema che le vuole schiave – visione condivisa da moltissimi movimenti femministi – oppure sono “put**ne”, donne a cui piacciono i soldi facili e che “rovinano le famiglie”. Ma come spiega la sociologa Giulia Selmi, che fa parte di Grips, Gruppo di ricerca italiano su prostituzione e lavoro sessuale, “l’esperienza reale abita nelle enormi sfumature che stanno nel mezzo”.

Alla base di questo stigma c’è una concezione del sesso ancora molto legata alla morale di stampo cattolico, che lo vede come un tabù da escludere dal dibattito sociale e politico. Questo genera conseguenze molto gravi, che vanno da una quasi totale mancanza di educazione sessuale nelle scuole fino al mancato riconoscimento della professione dei sex worker per quello che è: un lavoro, che peraltro può dare beneficio di alcune persone troppo spesso marginalizzate, soprattutto quando si parla di sesso.

Max Ulivieri è il creatore di Loveability, il primo sito in Italia in cui le persone disabili possono raccontare le loro esperienze e i loro desideri riguardanti il sesso. Come scrive lo stesso Ulivieri nel libro “Loveability – L’assistenza sessuale per le persone con disabilità”, «Ci sforziamo di venire incontro alle persone con disabilità per ogni loro bisogno che non possa essere svolto in completa autonomia: le aiutiamo a vestirsi, spogliarsi, mangiare, lavarsi. Diamo loro carrozzine elettroniche per muoversi, macchine con comandi speciali, computer dotati delle più moderne tecnologie. Eppure di tutti questi diritti – di cui nessuno metterebbe in dubbio la legittimità – ce n’è uno che viene sempre taciuto: quello alla sessualità. Toccarsi ed essere toccati, necessità naturali per chiunque, diventano questioni scabrose, scomode se riferite alle persone con disabilità».

L’impostazione della nostra società impedisce il riconoscimento del sex work come lavoro per ragioni che sono intrinsecamente legate alla negazione della sessualità femminile: le donne e il corpo delle donne sono “ad uso e consumo” degli uomini e riconoscere il sex work come lavoro restituirebbe alle operatrici del sesso il possesso sul proprio corpo e sulla propria sessualità, prospettiva inaccettabile per la morale maschilista e patriarcale. Le conseguenze di questo approccio, però, relegano le lavoratrici del sesso (e i lavoratori) in una sorta di limbo di indeterminatezza e mancanza di tutele. Chi sceglie volontariamente di lavorare col sesso, insomma, è un lavoratore “invisibile”, qualcosa di cui la società si vergogna.

 

La questione economica

Senza indugiare ulteriormente nell’ipocrisia che spesso accompagna la morale (stando a una stima realizzata dall’Ecpat Italia, network internazionale contro la lotta allo sfruttamento sessuale dei minori, sono circa 80 mila i cittadini italiani che ogni anno scelgono come meta paesi quale il Brasile, la Thailandia, il Sud est asiatico e l’Est Europa per concedersi una vacanza a sfondo sessuale), il riconoscimento del sex work come lavoro avrebbe anche sostanziosi vantaggi economici: la Germania ha  regolarizzato la libera professione già dal lontano 2002 con incassi record da 14,5 miliardi di euro l’anno. Non è diverso il discorso nei Paesi Bassi, dove le case chiuse sono legali e le lavoratrici del sesso pagano regolarmente le tasse, con un fatturato che contribuisce considerevolmente alle entrate del Paese.

L’Italia, come già detto, vive in una sorta di limbo: nel nostro paese la prostituzione non è illegale e quindi, teoricamente, i proventi derivati dal lavoro di sex worker potrebbero essere redditi imponibili ai fini Irpef. Ma – e qui il paradosso – non esiste un codice Ateco per i sex worker, che quindi possono trovarsi nella situazione surreale di dover aprire una partita IVA – come imposto dall’Agenzia delle Entrate a Rimini nel 2015 – ma dovendo indicare un’altra attività, di solito quella delle “arti e professioni”, come indicato dalle sentenze n. 10578/2011 e n. 22413/2016 della Corte di Cassazione. Insomma, si vogliono tassare i lavoratori e le lavoratrici del sesso, ma non si offre loro alcuna tutela perché il loro lavoro è considerato “fantasma”.

Un po’ un simbolo della doppia morale a cui si accennava prima: si dà per scontato che il sesso sia un lavoro, ma ci si rifiuta di considerarlo ufficialmente tale. Ma forse è arrivato il momento di tutelare chi sceglie volontariamente di fare del sesso il proprio mestiere, lasciando la morale alla coscienza individuale di ogni cittadino.

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