Prima della pandemia, sarebbe stato difficile immaginare di poter lavorare da casa, mentre oggi un mix di ufficio e remote working è dato quasi per scontato. Ma se in determinati casi la produttività di un dipendente che lavora a distanza è la stessa, perché sempre più aziende pretendono il ritorno in ufficio? C’entra lo scetticismo nei confronti del lavoro agile, ma anche le necessità dei neoassunti

Ai dipendenti Apple, ad agosto, è stato detto che a partire da settembre sarebbero dovuti tornare a lavorare in ufficio, quindi in presenza, almeno per tre giorni alla settimana. In risposta alla comunicazione firmata dal Ceo Tim Cook, i dipendenti hanno lanciato una raccolta firme per rifiutare il piano di parziale “ritorno alla normalità” proposto dall’azienda. «Sei un dipendente Apple office-based? Sei tutt’altro che entusiasta dell’obbligo di tornare in ufficio? Firma questa petizione, unisciti alla protesta», si legge in un tweet pubblicato dal collettivo Apple Together, composto da alcuni dipendenti dell’azienda di Cupertino.

«Siamo convinti che Apple dovrebbe incoraggiare e non ostacolare il lavoro da casa, in modo da costruire un’azienda più flessibile dove tutti possano sentirsi a loro agio», si legge nella petizione. Secondo i firmatari, che definiscono il lavoro in ufficio «una tecnologia del secolo scorso», Apple rifiuterebbe di riconoscere che il remote-working ha reso molti lavoratori «più felici e produttivi».

Al contrario di Twitter e Facebook, che hanno concesso ai loro dipendenti la possibilità di scegliere di lavorare permanentemente da casa, Apple su questo punto non sembra aver intenzione di cedere, tanto da essere disposta anche a perdere alcuni dipendenti a favore della concorrenza. È il caso, ad esempio, di Ian Goodfellow, direttore della divisione aziendale dedicata al machine learning, che ha lasciato Apple in favore di Google anche e soprattutto per la possibilità di continuare a lavorare da remoto: «Sono sicurissimo del fatto che una maggiore flessibilità sarebbe stata la cosa migliore per il mio team», ha dichiarato nel suo ultimo giorno a Cupertino. 

 

Le motivazioni di chi chiede il ritorno in ufficio

Sarà molto difficile frenare la trasformazione in atto: per i lavoratori più preparati, trovare un’altra azienda pronta ad assumerli con condizioni più flessibili diventerà facile e appetibile. L’esperienza della pandemia ha infatti portato numerosissime persone e professionisti a interrogarsi sul peso del lavoro nella propria vita – un qualcosa che prima veniva dato molto più per scontato. All’inizio dell’estate sul Guardian è uscito un articolo dal titolo “Working from home: how it changed us forever”, dove l’autrice Eva Wiseman dice una cosa illuminante: «Ho letto e pensato di più alla vita in ufficio negli ultimi due anni di quanto non abbia fatto in qualsiasi momento negli ultimi due decenni».

Prima dell’emergenza sanitaria il lavoro imponeva chiari standard ai dipendenti (banalmente, presentarsi ogni giorno alla stessa ora in ufficio), socialmente accettati e che venivano rispettati praticamente senza remore. Poi, quasi improvvisamente, in tanti hanno capito di avere il diritto di lavorare in quelle che considerano le condizioni migliori per sé stessi, senza imposizioni calate dall’alto. Secondo molti analisti il lavoro da remoto non ha avuto ripercussioni negative sulla produttività delle aziende e delle persone, che era uno degli effetti più temuti: perché allora sempre più imprese pretendono che si ritorni in ufficio?

Prova a dare una risposta l’Atlantic nell’articolo “Why Managers Fear a Remote-Work Future”, in cui il giornalista Ed Zitron sostiene che il remote working sia più meritocratico, perché conta il talento e quello che si sa fare. «Il lavoro a distanza dà potere a chi produce e priva di potere coloro che hanno avuto successo essendo eccellenti diplomatici e scarsi lavoratori. […] Rimuove la capacità di sembrare produttivo (stare seduto alla scrivania con l’aria stressata o farti vedere sempre al telefono) può rivelare quanti capi e manager semplicemente non contribuiscono ai profitti», si legge nell’articolo.

In un reportage del New York Times, dal titolo “The Office Last Stand”, il chief strategy officer di Topia – azienda leader nella Global Talent Mobility – racconta di aver chiesto ai dipendenti di aggiornare il proprio indirizzo postale per poter inviare loro delle felpe aziendali, scoprendo con molta sorpresa lavoratori sparsi in tutto il mondo. Anche a causa di questo scetticismo diffuso nei confronti del dipendente-lontano, alcune aziende americane, non potendo più contare sul timbro del cartellino, stanno inasprendo i sistemi di tracciamento del lavoro. Programmi come ActivTrak, Hubstaff e InterGuard acquisiscono schermate dei computer dei dipendenti e registrano il tempo passato effettivamente a lavorare. Secondo un’analisi di Market Research Future, quello del monitoraggio dei dipendenti è un settore che crescerà a dismisura, al pari di quello delle piattaforme per lavorare a distanza.

Il dibattito sulle implicazioni legali del monitoraggio dei dipendenti si divide, già oggi, fra chi ritiene questi strumenti il “prezzo da pagare” per il lavoratore agile, e chi al contrario questiona la loro validità legale. Se negli Stati Uniti e nei Paesi anglosassoni i tool cosiddetti “tattleware” stanno prendendo piede, nel contesto europeo – molto differente in termini di diritti sul lavoro – la loro imposizione pone forti dubbi a livello di privacy (in Italia, ad esempio, soluzioni del genere rischierebbero di andare in contrasto con l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori).

 

L’importanza dell’ufficio per i neoassunti

Il progressivo ritorno di molti dipendenti nei luoghi di lavoro sta ridando valore all’ufficio, non tanto come spazio di lavoro, quanto più come istituzione. Secondo l’informatico statunitense Ian Bogost, docente alla Washington University di St. Louis, i piani di ritorno negli uffici sono serviti piuttosto come affermazioni di una sorta di valore universale dell’ufficio – una struttura che non soltanto rende possibile il lavoro, ma definisce e preserva una certa cultura e un certo stile di vita. Per Bogost, il lavoro a distanza non porta soltanto vantaggi: ad esempio, la possibilità di lavorare in sedi fisiche con un team in presenza favorisce, tra le altre cose, l’apprendimento dei dipendenti neoassunti e la loro integrazione negli schemi aziendali preesistenti. 

E se già è difficile promuovere una cultura aziendale in circostanze normali, prosegue Bogost «ancora più difficile è farlo tramite un emoji», avendo «accesso a una stanza virtuale che si definisce un’azienda ma è fondamentalmente una chat di gruppo». I vantaggi da molti attribuiti al lavoro flessibile, come per esempio non avere distrazioni, con queste logiche possono diventare controproducenti per i più giovani.

Proprio dalle interazioni più informali e dalle riunioni di gruppo in presenza – la parte di lavoro che il giornalista Derek Thompson, in un altro articolo sull’Atlantic, descrive come «soft work» – i dipendenti più giovani traggono molte informazioni già assimilate dai loro colleghi più esperti. Per far fronte a questo e altri limiti del remote working, pur senza privandolo, secondo Thompson potrebbe tornare utile introdurre una sorta di manager in grado di «sincronizzare» il lavoro da remoto con quello in presenza. Questa figura si assicurerebbe, ad esempio, che i nuovi dipendenti siano in ufficio con colleghi in grado di fare loro da mentori, e favorendo più in generale iniziative di team-building anche per quei lavoratori a cui non è richiesta la presenza in sede.

 

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