Nonostante i report più esaustivi sul tema siano datati, è possibile tracciare un quadro del livello di discriminazione presente negli ambienti lavorativi per le persone LGBTQ+. Se per gli uomini e per le donne gay, lesbiche e bisessuali la situazione sta migliorando, per le persone trans la mancanza di diritti e tutele è un problema ancora molto grave
Secondo il report annuale di Gay Center, presentato in Campidoglio il 17 maggio 2022, il 35% dei lavoratori e delle lavoratrici LGBTQ+ segnala discriminazioni sul luogo di lavoro soprattutto dopo il coming out; a questi dati occorre incrociare quelli emersi dalla rilevazione di Istat e UNAR condotta nel 2020-2021 sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone gay, lesbiche o bisessuali, rivolta però esclusivamente alle persone in unione civile o unite civilmente in passato: tra quanti dichiarano un orientamento omosessuale o bisessuale e sono occupate o ex-occupate, il 26% sostiene che il proprio orientamento ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione).
Fotografare in maniera esaustiva la situazione delle discriminazioni subite dalle persone LGBTQ+ in Italia è estremamente difficile, per due ragioni: la prima è la mancanza di dati. I report appena citati sono infatti parziali. Il Gay Center elabora i propri dati sulla base delle richieste ricevute soprattutto su Gay Help Line, il numero verde dedicato alle segnalazioni di violenze e discriminazioni; Istat e UNAR invece hanno concentrato la loro richiesta sulle persone già unite civilmente, che rappresentano una porzione ridotta dell’intera comunità LGBTQ+ italiana occupata. A conti fatti, i due report più esaustivi sull’argomento rimangono ancora la famosa rivelazione Istat del 2011 ‘La popolazione omosessuale nella società italiana’ e, sempre nel 2011, il report ‘Io Sono Io Lavoro’ di Arcigay. Nonostante siano passati oltre 10 anni, sono ancora queste le basi su cui si muovono le riflessioni sul tema, come dimostra il ‘Vademecum sul lavoro e diritti LGBT’ di CGIL-CISL-UIL del 2017, che attinge i propri dati proprio dal report di Arcigay.
La seconda ragione è che, per quanto possa apparire paradossale, la discriminazione sul lavoro delle persone lesbiche, gay e bisessuali (il discorso varia per quelle transgender, come vedremo tra poco) è difficile da tracciare: la maggior parte dei lavoratori omosessuali o bisessuali in Italia, infatti, non rivela il proprio orientamento sessuale, per timore di discriminazioni o giudizi negativi oppure per mantenere il riserbo sulla propria vita privata. Il che è una scelta ovviamente legittima ma che rende impegnativo prendere il polso della situazione.
La discriminazione però, come emerge dai dati a disposizione, esiste. E con l’inizio del mese del Pride, vale la pena interrogarsi su quanto gli ambienti di lavoro italiani siano ‘safe zone’ per le persone LGBTQ+.
Non tutti sono discriminati allo stesso modo
La prima considerazione è che la situazione è diversa per gli uomini e per le donne: queste ultime, già discriminate in maniera strutturale sul lavoro (paghe inferiori rispetto ai colleghi uomini, poche tutele per le lavoratrici madri, sessismo e molestie) se sono donne lesbiche o bisessuali che hanno fatto coming out o hanno subito outing (cioè qualcuno ha rivelato il loro orientamento sessuale senza il loro consenso) denunciano offese e insulti, soprattutto a sfondo sessuale. Si tratta di una percentuale maggiore rispetto agli uomini (il 43,8% contro il 30,3%), ma questi ultimi subiscono, oltre a offese e calunnie, anche aggressioni fisiche, in percentuale maggiore rispetto alle colleghe donne.
Gay Center riporta che gran parte delle segnalazioni arrivano da persone sotto i 35 anni e questo può spiegarsi con il fatto che le generazioni più anziane di persone LGBTQ+ sono abituate ad applicare una ‘strategia dell’invisibilità’, non solo sul lavoro ma anche nella vita privata. Il rapporto Istat del 2011 dichiara che il 6,7% della popolazione italiana è gay, lesbica o transessuale, ma si tratta di una cifra ampiamente sottostimata, non aggiornata e che peraltro non tiene conto delle persone bisessuali, asessuali o intersessuali. È lecito pensare che siano tantissime le persone che hanno scelto di non fare coming out sul lavoro come nella vita, proprio per timore di discriminazioni.
A questo punto occorre fare una precisazione: non tutte le persone LGBTQ+ italiane subiscono sistematicamente discriminazioni sul luogo di lavoro. Si tratta di un fenomeno che riguarda una minoranza. Soprattutto tra i giovani uomini gay, le esperienze lavorative possono classificarsi come in generale positive. La discriminazione agisce e sortisce i suoi effetti sul benessere mentale dei lavoratori in maniera più sottile: tutte le persone LGBTQ+, infatti, si pongono problemi sconosciuti ai lavoratori eterosessuali. Dal semplice parlare della propria vita privata sul luogo di lavoro fino a domandarsi se si stiano subendo trattamenti discriminatori a causa del proprio orientamento sessuale.
Non si tratta di un eccesso di paranoia: nel rapporto Istat-UNAR emerge che il 4,8% degli intervistati riferisce di essere stato/a ingiustamente licenziato/a a causa del proprio orientamento sessuale o identità di genere; mentre il 19,1% denuncia di aver subito un trattamento ingiusto sul luogo di lavoro. A parità di lavoro, gli uomini omosessuali guadagnano dal 10% al 32% in meno dei loro colleghi eterosessuali.
Le persone trans e il lavoro: una materia ancora semi sconosciuta
Come premesso, se è vero che il report dei Gay Center vede la maggior parte delle discriminazioni tra le persone under 35, è altresì vero che la società, negli ultimi 10 anni, è cambiata. Non in maniera radicale, ma è sicuramente più semplice per un giovane uomo o una giovane donna dichiararsi gay, lesbica, bisessuale o asessuale senza conseguenze sul luogo di lavoro, soprattutto nei centri più urbanizzati.
Il discorso però cambia completamente quando parliamo delle persone transgender: addirittura dal punto di vista legislativo esiste un profondo vuoto normativo, se consideriamo che la fonte del diritto di riferimento in materia è il Decreto Legislativo del 9 luglio 2003, n. 216, che prevede “parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro”. Si parla di ‘orientamento sessuale’ e non di ‘identità di genere’. E per le persone trans questa è una differenza non da poco.
Orientamento sessuale e identità di genere non sono la stessa cosa: il primo riguarda l’attrazione sessuale di un soggetto verso altre persone, che possono essere di sesso opposto o uguale a quello dell’interessato; l’identità di genere, invece, riguarda il riconoscersi o meno nel proprio sesso ‘biologico’, ossia quello di nascita. Le persone transgender si riconoscono in un sesso che non corrisponde a quello biologico e possono o meno intraprendere un percorso di riassegnazione di genere che prevede l’assunzione di ormoni e in alcuni casi un’operazione chirurgica. Altre persone invece preferiscono non ricorrere alla medicina, limitandosi a specificare con quali nomi e pronomi desiderano essere chiamate.
Queste conoscenze afferiscono a sensibilità ancora molto acerbe nella società italiana: se possiamo affermare, con comunque un notevole livello di eccezioni, che per le persone gay, lesbiche, bisessuali o asessuali la società italiana sia diventata nel tempo più inclusiva (a diversi gradi: per le persone asessuali, ad esempio, la strada del pieno riconoscimento è ancora lunga) per le persone trans la situazione è praticamente stagnante. Con ripercussioni ovviamente anche sulla vita lavorativa.
Per le persone transgender nella maggior parte dei casi la ‘strategia dell’invisibilità’ non è un’opzione percorribile: specie nel caso in cui stiano intraprendendo un percorso di riassegnazione di genere, i cambiamenti fisici sono evidenti e impossibili da nascondere. Secondo quanto scrivevano Porpora Marcasciano e Marcella Di Folco nel 2001 nel saggio ‘Transessualismo: dall’esclusione totale ad un’inclusione parziale’, “l’associazione ricorrente a livello di immaginario collettivo fra il concetto di transgenerità e quello di prostituzione costituisce uno fra gli ostacoli e le grosse difficoltà nel diritto di accesso al lavoro che penalizza l’intera categoria”.
Non esiste a livello italiano un rapporto dedicato esclusivamente alle discriminazioni subite dalle persone trans. Per avere un quadro della situazione dobbiamo spostarci a livello europeo: il report del 2014 ‘Essere trans nell’Ue’ del FRA (Fundamental Rights Agency, l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali) rivela che più di un intervistato trans su tre si è sentito discriminato per il fatto di essere trans quando cercava un lavoro (37 %) e un quarto (27 %) ha riferito episodi di discriminazione sul posto di lavoro.
Peraltro, sempre lo stesso report sostiene che “solo un numero esiguo di intervistati ha segnalato il più recente episodio di discriminazione […] Gli intervistati trans temevano anche che l’episodio non sarebbe stato preso sul serio e non volevano rivelare il loro orientamento sessuale e/o la loro identità di genere. Quasi uno su tre (30 %) non sapeva come o dove segnalarlo”.
Lavoratori LGBTQ+, come si muovono le aziende: la figura del Diversity Manager
Come dicevamo, comunque, si sono verificati dei cambiamenti significativi all’interno della società italiana, volti a tutelare le persone LGBTQ+ anche in ambito lavorativo. Il report Istat-UNAR ‘Il diversity management per le diversità lgbt+ e le azioni per rendere gli ambienti di lavoro più inclusivi’ rileva che, al 2019, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti (pari a oltre mille imprese) ha adottato almeno una misura ulteriore rispetto a quanto già stabilito per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBTQ+. Tra queste misure si ricordano: eventi formativi rivolti al top management e ai lavoratori sui temi legati alle diversità LGBTQ+; iniziative di promozione della cultura d’inclusione e valorizzazione delle diversità LGBTQ+; misure ad hoc per i lavoratori transgender; permessi, benefit e altre misure specifiche per i lavoratori LGBTQ+.
Per ‘diversity/inclusion management’ si intendono l’insieme delle misure e degli strumenti che intendono gestire e valorizzare le diversità dei lavoratori, promuovendone l’inclusione negli ambienti di lavoro. Monica J. Romano, prima persona transgender eletta al Consiglio Comunale della Città di Milano, attivista, scrittrice e presidente onoraria dell’ACET (Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere), svolge anche il lavoro di ‘Diversity Manager’ per le aziende. Come spiegava sulla rivista online Purpletude nel 2019, “nel promuovere questa visione, è importante evidenziare che il pregiudizio in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere rappresenta un costo per le aziende, non soltanto per le cause di lavoro alle quali l’azienda che discrimina può certamente andare incontro ma anche perché il pregiudizio è un ostacolo al reclutamento e alla promozione del candidato più qualificato per un lavoro e dei migliori talenti che il mercato offre, eccellenze incluse. Creare un ambiente di lavoro sereno e adatto a qualunque persona risulta vincente per tutti: l’assenza di discriminazioni è produttiva e mettere l’etica è al centro è intelligente, oltre che giusto”.
Leggi anche >> “Cosa vuoi fare da grande?”. La Gen Z e il lavoro tra speranze, paure e disillusioni