In altri Paesi è obbligatorio, mentre in Italia la sua importanza è sottovalutata: cos’è l’outplacement e quali sono i vantaggi del ricollocare i lavoratori in settori emergenti

Oggi più che mai c’è la necessità di prendere maggiore confidenza con questo strumento, che apporta grandi benefici sia al lavoratore che all’azienda: parliamo dell’outplacement, cioè dell’attività di ricollocazione del singolo nel mercato del lavoro. Un mercato che è soggetto a mutamenti e trasformazioni e che la pandemia ha stravolto più che mai.

Il termine è stato importato dagli Usa, dove è stato coniato intorno agli anni ’60 e utilizzato per la prima volta dalla NASA, la quale aiutò migliaia di dipendenti provenienti dal concluso progetto “Apollo” a ricollocarsi. Come servizio che favorisce la riqualificazione e la ricollocazione in differenti contesti aziendali dei disoccupati o di chi è in cerca di un nuovo lavoro, se oggi fosse incrementato potrebbe salvare molte persone e molte realtà che sono state particolarmente “piegate” dalla crisi economica in atto.

Crisi a cui lo Stato continua a porre rimedio soprattutto tramite sussidi e ammortizzatori sociali: da aprile 2019 a luglio 2021 sono stati investiti 15,2 miliardi di euro per garantire il sostegno economico alle persone senza lavoro e in difficoltà, ma nel frattempo non sono stati attivati i giusti percorsi e politiche per far sì che domanda e offerta si incontrino più facilmente. Così, oltre al fatto che le aziende continuano a lamentare la mancanza di figure adatte ai nuovi ruoli che le recenti trasformazioni socio-economiche hanno reso necessarie, proseguono le polemiche sull’ opportunità o meno di concedere ai disoccupati strumenti come il reddito di cittadinanza.

Il punto, comunque, è che non esiste un sistema strutturato, armonico e rapido che connetta le nuove esigenze del mercato del lavoro con i profili disponibili a metterle in pratica; però andiamo incontro ad una riforma delle politiche attive del lavoro, attualmente tra le priorità del ministro Andrea Orlando. Nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza è stata infatti prevista una riforma per il potenziamento delle politiche attive del lavoro, il cui perno è l’istituzione del Programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) e che ha l’obiettivo di rivolgersi a tutti i beneficiari di un ammortizzatore sociale o del Reddito di cittadinanza, oltre che a giovani Neet, persone con disabilità e in condizione di fragilità. E proprio in questa riforma potrebbe trovare un po’ di spazio un rafforzamento dello strumento dell’outplacement, il quale verrebbe certamente potenziato da un più stretto dialogo tra pubblico e privato.

Cos’è l’outplacement e come funziona

Per outplacement si fa dunque riferimento ad un percorso di orientamento e valorizzazione di un dipendente licenziato, così da facilitarne il re-inserimento nel mondo del lavoro. Funge da supporto al ricollocamento, e in genere è un servizio che viene svolto da agenzie ed enti per il lavoro.

Il lavoratore viene accompagnato in un percorso di riqualificazione delle sue competenze, in modo tale da potersi ricollocare in altri e nuovi ambiti. Del servizio beneficiano sia l’azienda, che si trova nella situazione di dover ridurre il costo del lavoro, che il lavoratore, al quale viene garantita assistenza in un momento di incertezza e transizione.

In questo duplice vantaggio l’outplacement diventa uno strumento negoziale per l’imprenditore, che riconosce il valore delle risorse umane, e per il lavoratore, che ne guadagna anche un sostegno emotivo, oltre che concreto. L’interruzione di un percorso così non viene vissuta come un fallimento, ma come un’occasione di crescita professionale.

Il percorso di outplacement si struttura in 4 fasi:

1- Assessment (autodiagnosi/bilancio delle competenze)
2- Preparazione degli strumenti di marketing (curriculum vitae, colloquio, lettera di presentazione, ecc.)
3- Ricerca attiva sul mercato
4- Reinserimento nel mercato del lavoro

In Italia, dove la diffusione dell’outplacement è avvenuta attraverso una ristrutturazione delle agenzie del lavoro e delle società predisposte allo svolgimento di tale attività, questo strumento è arrivato tardi rispetto agli Stati Uniti o agli altri Paesi. Qui viene considerato ancora oggi un servizio innovativo a cui si ricorre con difficoltà e verso cui molti datori di lavoro guardano con pregiudizio.

In Italia, anzi, persiste una certa arretratezza per quanto riguarda le politiche attive per il lavoro: relativamente al reddito di cittadinanza, ad esempio, il meccanismo che prevedeva – accanto all’erogazione di un sussidio – l’attivazione di un percorso che aiutasse il beneficiario a trovare lavoro si è “inceppato”. Sono stati addirittura assunti dei navigator, ossia persone che, tramite i centri per l’impiego, dovevano occuparsi di collocare le migliaia di disoccupati tramite dei percorsi personalizzati.

Al 10 febbraio, secondo un report della Corte dei Conti, erano 152.673 le persone che avevano instaurato un rapporto di lavoro successivo alla data di presentazione della domanda per il Rdc*, il 14,5% del totale: in tal modo le politiche assistenzialistiche restano fini a sé stesse e non risolvono la piaga della disoccupazione.

Ma, soprattutto, se non si analizzano i fabbisogni occupazionali in base alle esigenze del mercato del lavoro, non avviene (una virtuosa) collocazione delle risorse disponibili nei settori emergenti: a livello centrale manca una necessaria integrazione tra le attività dell’Inps (che eroga i sussidi) con i Centri per l’impiego. Conseguenza della mancanza di un disegno politico più ampio e strutturato. Ed è proprio alla luce di questa situazione che, per garantire l’outplacement dei lavoratori, intervengono operatori privati ed agenzie, il cui lavoro dovrebbe essere diversamente supportato e integrato, visto che le aziende continuano a lamentare difficoltà nel reperire manodopera anche per i profili di media e bassa qualificazione.

 

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