Il libro di Alessandra Minello ‘Non è un paese per madri’ racconta tutte le difficoltà delle donne lavoratrici italiane. Che scontano ancora l’arretratezza di un Paese che tuttora le concepisce angeli del focolare, alle prese con le cure domestiche. Tante le soluzioni possibili, “ma è soprattutto necessario un cambiamento culturale” a detta di Minello

L’Italia Non è un paese per madri: il titolo del volume della demografa Alessandra Minello, edito da Laterza a giugno scorso, scoperchia il vaso di Pandora sulla condizione femminile italiana. Che è tutta in svantaggio, specialmente dal punto di vista della combinazione tra maternità e lavoro. Per le donne un percorso a ostacoli, che le rende delle “equilibriste” scrive l’autrice. Il ragionamento da cui partire è che i dati concordano nel dire “che nei nuclei familiari a doppio reddito, quelli in cui anche le donne lavorano, nascono più figli” conferma a Dealogando Minello, 40enne ricercatrice sui temi della fecondità, a sua volta mamma.

Eppure nel nostro Paese è in corso – ormai da decenni – un’inarrestabile decrescita della natalità. Che, guarda caso, è accompagnata anche da uno dei più bassi tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro: circa il 50% contro una media di oltre il 60 in Europa.

 

Le difficoltà della conciliazione per le madri

Le donne italiane, insomma, lavorano poco e fanno sempre meno figli. Non solo è alto il tasso delle inattive, “ma anche delle madri che abbandonano il lavoro dopo la nascita di un figlio” prosegue Minello. “Accade soprattutto al Sud, e tra le meno istruite”. Ma la discriminazione esiste per tutte, anche le più qualificate, perché “non ci sono percorsi lavorativi in cui vi si sfugga” si sottolinea nel libro. Le donne giocoforza arrancano nel lavoro con l’arrivo di un bambino: “A loro viene richiesto uno sforzo enorme per adeguarsi al ruolo di cura e di lavoratrici”, si legge nel volume. In più “di conformarsi a una figura idealizzata di madre sempre presente e perfetta”. Sull’altro fronte per gli uomini “persiste invece il mito del lavoro”, nonostante per loro sia in corso “un cambiamento radicale per quanto riguarda la paternità”. Dimostrazione della teoria è questa: “Se per una donna lo stigma è non essere madri” dice Minello, “per gli uomini lo è non avere un lavoro”.

 

Secondo Minello è un problema culturale

Il problema è in gran parte culturale, secondo il pensiero dell’autrice. Che non passa neppure per facili ricette come la detassazione totale a partire dai due figli proposta dal ministro dell’Economia Giorgetti. “Il lavoro si tassa quando c’è”. Invece in Italia la gestione del lavoro di cura continua a essere sulle spalle delle donne, pur essendo aumentata la partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Eppure, “le donne dedicano più tempo alla cura in tutte le famiglie, anche in quelle in cui entrambi lavorano o in cui sono le breadwinner”. Non solo, ma esiste ancora una grande fetta della popolazione impostata sul modello tradizionale. “Quasi il 40% delle famiglie”, scrive Minello nel primo capitolo, “è ancora composto dal tipico modello che prevede l’uomo come unico responsabile del reddito e la donna casalinga e dedicata alla cura”.

 

Gli asili nido non bastano alle madri

Un possibile argine a tale dispendio di capitale umano sono gli asili nido? Ne serve un numero adeguato per sopperire alle esigenze delle madri lavoratrici. E “nel Pnrr c’è un grande investimento per aumentarne il numero”, sottolinea l’autrice. Una via potrebbe anche essere quella della gratuità dei nidi, “c’è adesso un esperimento a Mantova”. Neppure questo però assicurerebbe necessariamente una ripresa della natalità. La questione è controversa perché “alcuni lavori di indagine nazionale mostrano che non vi è alcun effetto prodotto dalla presenza degli asili nido”. Meglio forse puntare su una combinazione di fattori.

 

Gli aiuti che potrebbero invertire la rotta

Una su tutte, la soluzione potrebbe essere l’aumento degli importi degli assegni unici. “I dati Inps parlano di utenti soddisfatti, ma in Europa le cifre sono più alte e andrebbero adeguate”. A seguire tutta una serie di aiuti “per l’acquisto di una casa e per favorire la stabilità contrattuale”, altro nodo tutto italiano. E poi un congedo paritario tra uomini e donne, “che non porti a un’assenza di cinque mesi dal lavoro delle madri contro i dieci giorni degli uomini”. E un insegnamento alla parità dei ruoli che parta già dalle scuole, “abituando i bambini fin da piccolissimi a collaborare nella cura della casa”. Imparando un modello che adotteranno anche in futuro.

 

Le aziende devono fare la loro parte

Anche da parte delle imprese l’impostazione va cambiata. Secondo Minello, “Finora il mercato del lavoro è stato tutto plasmato su una logica maschile”. Serve invece una visione nuova, con aziende che per esempio realizzino una pianificazione a lungo termine del proprio organico, non limitandosi – quando si presenta una maternità – a rimpiazzare la risorsa con una sostituzione”. Da rivedere è anche il sistema su cui si basa la produttività. Una buona pratica a cui rifarsi è quella delle accademiche, “la cui progressione di carriera si basa sulla quantità di pubblicazioni”. Anche se non è la norma, “in alcuni casi viene tenuto in conto il periodo che è andato perso per la maternità”. Si sconta il tempo, in modo da eliminare lo svantaggio. E chissà che le soluzioni auspicate, messe insieme, non facciano invertire la rotta del calo demografico. E il nostro, come auspica l’autrice, “diventi un paese per madri”.

 

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