Secondo alcuni studi, i belli sono avvantaggiati nel percorso lavorativo e vengono pagati di più. Come la discriminazione dell’aspetto fisico sul luogo di lavoro può influenzare assunzione e retribuzione

Ci sono tanti modi per chiamarla: pulchronomics, economia della bellezza, lookismo. La sostanza, però, è sempre la stessa: si tratta della discriminazione ai danni delle persone considerate non di bell’aspetto, meno desiderabili fisicamente, e del trattamento di favore che invece viene spesso riservato a coloro che sono considerati belli, piacenti, attraenti.

Partendo dal presupposto che “bello o non bello” è una valutazione del tutto soggettiva, esistono studi che provano questo fenomeno e che esplorano la discriminazione dell’aspetto fisico all’esterno e all’interno dei luoghi di lavoro. Ma non solo: secondo queste ricerche i “più belli” sarebbero favoriti in diversi contesti, da quello sportivo a quello accademico, e sono facilitati anche se, ad esempio, devono andare in banca a chiedere un prestito.

Il fenomeno del lookismo, che ha di recente affrontato anche il New York Times in un articolo a firma dell’opinionista David Brooks, riguarda indistintamente uomini e donne e in particolare negli Stati Uniti esiste un numero crescente di ricerche sulla discriminazione dell’aspetto fisico sul posto di lavoro, i cui risultati hanno portato alla determinazione di politiche e leggi a tutela di questa (ulteriore) forma di discriminazione, oltre che ad una vasta sensibilizzazione preventiva in merito a pratiche di reclutamento, assunzione e retribuzione che devono essere sempre più eque e sempre meno influenzate da giudizi, personali o collettivi.

Cos’è il lookismo e perché questo “bias” può influenzare il percorso lavorativo

Quando nel 2011 l’economista americano Daniel Hamermesh pubblicava La bellezza paga: tutti i vantaggi di essere attraenti, sosteneva che l’aspetto fisico va a incidere sulle condizioni economiche delle persone. Gli uomini considerati “brutti” guadagnerebbero infatti il 17% in meno di quelli considerati “belli”, mentre per le donne lo stesso divario scende al 13%.

Secondo Hamermesh, già autore de La bellezza e il mercato del lavoro pubblicato nel 1994 sull’American economic review, “i brutti guadagnano meno delle persone con un aspetto fisico nella media, che a loro volta guadagnano meno dei belli”. “L’impatto dell’aspetto fisico di un individuo – aggiungeva – sembra essere indipendente dal suo impiego, cosa che suggerisce l’esistenza di una pura discriminazione da parte del datore di lavoro”. Questa sorta di “bias” secondo l’economista era presente – e forte – anche nell’ambiente accademico, tanto che in una ricerca del 2003 sosteneva che “i docenti considerati più belli ottengono valutazioni migliori dagli studenti”.

Un altro studio, condotto dal ricercatore della Mississippi State University Todd Jones, ha invece rilevato che i belli hanno più possibilità di vincere elezioni politiche. Questo però per lo più “laddove gli elettori hanno meno probabilità di ottenere più informazioni sui candidati”. Sono dunque diversi i contesti dove la bellezza aiuterebbe: secondo Philipp Geiler, docente della Lyon business school, “il volto di una persona incide sulla probabilità che gli azionisti votino in dissenso durante l’elezione o rielezione di un dirigente d’azienda”, mentre secondo David J. Berri della Southern Utah University “l’avvenenza, misurata secondo parametri di simmetria facciale, porta a una più alta remunerazione nello sport professionistico. I quarterback più attraenti della National football league percepiscono stipendi più alti”.

Di recente, come anticipato, anche il New York Times ha affrontato il tema del lookism, che si configura come la discriminazione ai danni dei “brutti” in diversi contesti, in primis quello lavorativo. Nell’articolo, a firma del noto commentatore David Brooks e intitolato Perché la cattiveria contro i brutti viene accettata?, vengono citati diversi studi che confermano che le persone di bell’aspetto hanno maggiori probabilità di essere chiamate a un colloquio di lavoro, di essere assunte o promosse rispetto a individui meno attraenti. “Gli effetti discriminatori del lookismo sono pervasivi. Una persona poco attraente perde quasi un quarto di milione di dollari di guadagni nel corso della vita rispetto a una attraente”, sostiene Brooks. “Una società che celebra la bellezza in modo così ossessivo è destinata a essere un contesto sociale in cui chi è meno bello viene sminuito: l’unica soluzione è quella di cambiare norme e pratiche”. Fare ricorso per questo tipo di discriminazione, però, non sarebbe facile, vista soprattutto la difficoltà con cui i Tribunali riescono ad intervenire in caso di discriminazioni più palesi come quelle su razza, genere e orientamento sessuale.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Dealogando (@dealogando)