Le Grandi dimissioni non sono del tutto una conseguenza del Covid, perché in passato si erano già verificate. Correva l’anno 2007, il tasso di disoccupazione era simile a quello di oggi – del 6 per cento contro il 7 attuale – e i dimissionari toccavano quota quattro per cento. In atto insomma non c’è nessuna rivoluzione, se non la ricerca di un’occupazione e di uno stile di vita migliori

Se ne è parlato a lungo sui media come di uno degli effetti della pandemia. Parliamo delle Grandi dimissioni, il fenomeno che nei primi sei mesi del 2022 solo in Italia ha portato 1,6 milioni di lavoratori a lasciare il posto di lavoro, equivalente al 3,2 per cento degli occupati. Una tendenza di massa, tanto diffusa anche a livello internazionale da aver assunto la denominazione di ‘Great Resignation’. Negli Usa, nel 2021, secondo i dati sono stati in 47 milioni a dare le dimissioni. Questa grande mole di dimissioni volontarie, però, non rappresenta una novità nella storia del mercato del lavoro italiano: un picco ancora più elevato di dimissionari si era registrato ben ventisei anni fa, nel 2007, con il 4 per cento di addii volontari al posto di lavoro. A metterlo in luce è Francesco Armillei in un articolo apparso nei giorni scorsi su Lavoce.info, il quale ha spiegato come questo trend abbia dei precedenti importanti, e di cui nessuno ha parlato.

 

I dati sulle Grandi dimissioni sono stati letti male?

La spiegazione si trova tutta nell’interpretazione data alle note trimestrali del Sistema informativo statistico delle comunicazioni obbligatorie rilasciate dal ministero del Lavoro ogni tre mesi. Sottolinea infatti Armillei che la serie storica sul numero di dimissioni ha inizio nel primo trimestre del 2012. Le comunicazioni obbligatorie delle aziende, invece, non arrivano più indietro del 2010. Dunque, secondo il ragionamento del ricercatore, il record di dimissioni vale solo per il periodo successivo al 2010. Grazie invece ai calcoli di Lavoce.info sulla base dell’incrocio di dati del ministero del Lavoro e dell’Inps, si è riusciti a andare più indietro con il tempo e a scoprire che delle Grandi dimissioni c’erano già state. Basta osservare il periodo che va dal 2006 al 2008: il picco si raggiunge nel quarto trimestre del 2007, con le dimissioni che toccano il 4 per cento di tutti i lavoratori dipendenti. Una percentuale che supera quella dei licenziamenti attuali (3,2 si è detto).

La pandemia c’entra con il fenomeno delle Grandi dimissioni? Sì, l’emergenza ha inciso nelle abitudini dei lavoratori, ma solo in parte. “L’intensità del lavoro sperimentato in pandemia è elemento centrale del fenomeno” ha detto in una intervista all’Agi Pietro Novelli, general manager di Oliver James Italia e consigliere di Anpal Servizi. Nel corso dell’emergenza sanitaria il lavoro – per lo più da remoto – ha avuto un ritmo più elevato, e per questo si è a caccia, soprattutto da parte delle nuove generazioni, di flessibilità, un concetto che ha acquisito rilievo proprio nell’era Covid. L’aumento delle dimissioni, spiega Tania Scacchetti della Cgil in una intervista a Il Sole 24 Ore, “può essere legato alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più agile”. Il sospetto è che non si tratti insomma di dimissioni vere e proprie nel senso di abbandono del posto di lavoro. Bensì che di mezzo vi sia la ricerca di condizioni di lavoro più vantaggiose. E allo stesso tempo di uno stile di vita all’insegna di valori diversi, che non siano solo gli impegni lavorativi. Non a caso secondo i dati forniti da Anpal e rielaborati dalla società di recruitment Oliver James, in media chi ha dato le proprie dimissioni nel 2022 risultava non a spasso, bensì di nuovo occupato dopo meno di un mese dalla cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro.

 

Il job hopping è l’altra faccia delle Grandi dimissioni

In realtà la tendenza a dare le dimissioni era già partita nel 2018, molto prima che esplodesse il virus. Ci sono infatti altri elementi a cui guardare per capire le cause più profonde di quanto sta avvenendo. Uno di questi è il tasso di disoccupazione, che oggi si attesta intorno al 7 per cento, in una percentuale che è in continua discesa (solo qualche anno fa si superava il 10). Nel 2007, proprio quando si sono verificate per la prima volta le ‘Grandi Dimissioni’, il tasso di disoccupazione era ancora più basso, del 6 per cento. Insieme alle grandi dimissioni quello che si sta verificando è il cosiddetto ‘job hopping’, la pratica del saltare da un lavoro a un altro alla ricerca di migliori stipendi e di un più favorevole bilanciamento con la vita privata. Il mercato italiano è composto di piccole e medie imprese, spesso a carattere familiare. La normalità finora è stata quella di passare la propria vita in una sola azienda, ma “questo sta cambiando” secondo Novelli. In un momento storico in cui il basso tasso di disoccupazione lo consente.

 

Dimissionari a caccia di un lavoro migliore

Gli ultimi dati Anpal e Unioncamere parlano di “una percentuale di posizioni non coperte del 46,4 per cento” prosegue Novelli. Si registra “un macro trend di domanda e offerta”. Si cercano insomma più figure professionali da parte delle aziende, mentre i lavoratori si avviano verso nuovi progetti di vita e di lavoro. Il job hopping ha così preso piede, complice anche il nodo, tutto italiano, delle basse retribuzioni: l’Italia è infatti uno dei Paesi in cui gli stipendi sono cresciuti di meno negli ultimi 30 anni, secondo gli ultimi dati Ocse. E questo è un problema “soprattutto con l’inflazione in aumento”.  Le buste paga sono cresciute del tre per cento, calcola Novelli, “mentre l’inflazione dell’8,1”. L’aumento salariale è così andato a compensare “solo il 40 per cento dei rincari, contro una media Ue del 54 per cento”. Sono tutti fattori che insieme “hanno contribuito a generare un maggior numero di dimissioni”. Per andare, subito dopo, alla ricerca di una sistemazione lavorativa più consona alle proprie aspettative.

 

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