La Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva per dare nuove forme di tutela ai lavoratori delle piattaforme: milioni di persone vedrebbero riconosciuto il proprio ruolo di dipendenti, con nuove regole anche sulla trasparenza degli algoritmi. Le piattaforme intanto si dividono nelle reazioni annunciate

Da Bruxelles è partita una possibile rivoluzione per la tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali (la cosiddetta gig economy). Non si tratta solo dei rider (i fattorini che portano a casa cibo o altri pacchi), ma anche di driver (autisti di servizi come Uber), lavoratori domestici, manutentori o anche traduttori. La Commissione europea ha infatti presentato una proposta di direttiva che intende apprestare nuove forme di tutela ad ampio spettro: da una ridefinizione degli orari di lavoro e dei livelli di retribuzione fino ad arrivare ai codici di abbigliamento. La questione sociale che riguarda questi lavoratori è nota, sia per la grande popolarità dei loro servizi – peraltro notevolmente accresciuta dopo il lockdown – sia perché ormai presente nel dibattito pubblico da diversi anni, con intrecci tra leggi e giurisprudenza talvolta confusionari. Valdis Dombrovskis, Vicepresidente della Commissione, ha così presentato la proposta: “I lavoratori delle piattaforme digitali devono avere lo stesso livello di tutele che hanno gli altri lavoratori se svolgono lavoro dipendente. Le piattaforme di lavoro digitali hanno un grande potenziale di innovazione, ma le persone che forniscono questi servizi hanno spesso scarso accesso alle protezioni sociali”.

Qualche numero

Ma di quanti lavoratori parliamo? Chi pensasse a un tema residuale si sbaglierebbe di molto: in Italia si conta circa un milione di lavoratori delle piattaforme (concetto come abbiamo visto ben più ampio rispetto ai soli rider, che sono 60mila). A livello europeo si comprende ancora meglio la portata del fenomeno: circa 500 piattaforme digitali, capaci di dare lavoro a 28 milioni di persone. Ma il numero che più ci deve interessare qui è 5,5 milioni: tante sarebbero le persone erroneamente classificate (cioè qualificate come autonomi pur svolgendo un lavoro dipendente). Cifre che peraltro vanno guardate in prospettiva: i lavoratori delle piattaforme potrebbero salire addirittura a 43 milioni entro il 2025, mentre si stima che gli Stati membri riceveranno fra gli 1,6 e i 4 miliardi di nuovi contributi una volta avvenuta la “conversione” dei falsi lavoratori autonomi in lavoratori dipendenti.

I 5 criteri della Commissione

Per raggiungere gli obiettivi della Commissione è naturalmente necessario stabilire dei criteri selettivi. In primo luogo: non stiamo parlando delle piattaforme che si limitano semplicemente a mettere in contatto domanda e offerta (pensiamo per esempio ad Airbnb) ma di quelle che organizzano attivamente il lavoro. Più in particolare, la Commissione ha elaborato 5 criteri per stabilire se le piattaforme possono essere considerate come datori di lavoro:

  • Determinano il livello di remunerazione o ne fissano i limiti massimi?
  • Controllano le performance del lavoratore tramite sistemi elettronici?
  • Limitano la libertà di scelta del proprio orario di lavoro, dei periodi di assenza o sui propri servizi?
  • Impongono specifici codici di comportamento o di aspetto sui lavoratori nei confronti dei clienti?
  • Limitano la possibilità di costruirsi una propria base di clienti o di lavorare per altri operatori?

Nel caso in cui due di questi cinque criteri trovino risposta affermativa scatterà un automatismo presuntivo (definito appunto “presunzione confutabile di subordinazione“) per definire i lavoratori come dipendenti e le piattaforme come datori di lavoro. Con tutto ciò che ne consegue: ferie garantite, congedi parentali, permessi per malattia, accumulo di contributi per la pensione, salario minimo nei Paesi in cui è previsto. Si tratta pur sempre di una presunzione (dunque superabile), ma graverà sulle piattaforme l’onere di provare che i lavoratori che svolgono servizi per loro non sono dipendenti. Questo aspetto è di grande importanza perché costituisce un ribaltamento rispetto allo schema cui abbiamo assistito in questi anni in cui erano i lavoratori a dover provare di essere dipendenti per ottenere i benefici di cui sopra.

Gli algoritmi: un “capo” da responsabilizzare

Un altro importante tema affrontato dalla Commissione riguarda le decisioni degli algoritmi, da inquadrare in una nuova cornice di trasparenza e accountability. Non bisogna infatti dimenticare che sono schemi automatizzati a incidere in maniera determinante sulla vita dei lavoratori, decidendo le loro retribuzioni e i criteri con cui una consegna viene attribuita a un lavoratore piuttosto che a un altro. In questo senso, le piattaforme dovranno fornire adeguate informazioni ai lavoratori sia sul tipo di azioni che verranno monitorate e valutate (anche attraverso i feedback dei clienti, cui siamo ormai abituati come consumatori) sia sui principali parametri adottati dagli stessi algoritmi. Come spiegano Valerio De Stefano e Antonio Aloisi (giuslavoristi che hanno sensibilmente contribuito al dibattito accademico/politico in materia e autori de “Il tuo capo è un algoritmo”, Laterza) il testo della Commissione supererebbe visioni stereotipate sulla presunta impenetrabilità degli algoritmi,  spesso utilizzata come una cortina fumogena per minare la leggibilità e contestabilità dei criteri utilizzati, sottraendoli alla naturale dialettica fra datori di lavoro e dipendenti in nome di una sorta di fatalismo tecnologico. È infatti previsto un modello di “workplace fair process“, in linea con i doveri dei datori di lavoro tradizionali che esercitano poteri discrezionali e unilaterali. Le piattaforme dovranno condividere informazioni scritte sulle decisioni con un impatto significativo, come la risoluzione, la negazione della retribuzione o la modifica dei termini contrattuali.

Quanta resistenza opporranno le piattaforme?

Certo, la discussione politica è appena iniziata e coinvolgerà più da vicino le istanze delle piattaforme in questione. Eppure l’approccio della Commissione appare deciso: “Nessuno sta cercando di uccidere, fermare o ostacolare la crescita delle piattaforme, siamo tutti impegnati nello sviluppo di questa economia perché corrisponde a una domanda nella nostra società, e vogliamo che prosperi. Ma questo modello di business dovrebbe anche adattarsi ai nostri standard, compresi quelli sociali”, ha commentato Nicols Schmit, commissario europeo per il Lavoro. Se è vero che non esistono pasti gratis, è chiaro che maggiori costi per le piattaforme si risolverebbero in una crescita dei prezzi dei servizi offerti ai clienti e i nuovi criteri potrebbero avere risvolti occupazionali. Quel che si può già registrare tuttavia è un’interessante spaccatura sul fronte delle piattaforme: mentre Uber ha già contestato animatamente la direzione intrapresa dalla Commissione, questa è stata salutata favorevolmente da un altro importante operatore come Just Eat. Anche dal punto di vista strettamente politico naturalmente la strada resta ancora lunga: dovrà prima essere discussa dal Parlamento europeo, poi dal Consiglio dell’Unione. Quest’ultimo step riguarda i governi dei singoli Stati nazionali, cui poi spetterà l’adozione della direttiva con il conseguente adattamento nelle proprie legislazioni nazionali. Fra il punto di partenza e l’auspicabile punto di arrivo interverrà certamente la capacità di influenza delle piattaforme stesse, con esiti non facilmente prevedibili. I cambiamenti di paradigma non si costruiscono in un giorno.