Sono più di 10 milioni gli italiani che vivono e lavorano lontano dalle proprie famiglie, all’estero o in altre parti d’Italia. Ma negli ultimi anni molti hanno realizzato un desiderio finora sopito: quello di tornare, per ritrovare sé stessi e creare nuove opportunità.

Aeroporti e stazioni d’Italia, in queste settimane di fine estate, sono palcoscenico di tanti saluti, abbracci, grandi e piccole separazioni velate dalla nostalgia della fine delle vacanze. Milioni di italiani richiudono le valigie e tornano nelle città e nei paesi dove vivono e lavorano, lontani dai luoghi dove sono cresciuti, dalle famiglie, spesso anche dai partner.

D’altronde, si va dove c’è lavoro. Un mantra che per noi italiani sembra essere rimasto immutato dagli inizi del ‘900, quando eravamo migranti affamati di speranza. Sarebbe stato facile, quasi scontato, immaginare un futuro in cui avremmo potuto svolgere le nostre mansioni da ovunque avessimo desiderato. Quel futuro è tutto intorno a noi, eppure sembra ancora fuori dalla nostra portata. E chi vive in questo strano paese spesso abbandona famiglie e case natie, che si riducono a case delle vacanze, per migrare verso il Nord oppure nel resto del mondo. Con il risultato che, secondo un sondaggio di Migranti, sono oltre 5,5 milioni gli italiani che vivono stabilmente oltre confine, mentre 4,9 milioni i fuori sede sul suolo italiano.

Milioni di legami familiari frammentati, di genitori che invecchiano lontani dai figli, di figli che creano famiglie lontani dai luoghi della loro infanzia. Patrimoni affettivi che inesorabilmente sbiadiscono. Certo, i tempi (per fortuna) cambiano, nuove tradizioni sostituiscono le vecchie, eppure non è sempre così facile vivere lontani, di sapere che i nostri figli cresceranno parlando lingue, o dialetti, diversi da noi.

Quali siano i motivi che ci spingono fuori da casa lo sappiamo fin troppo bene. Quali invece le ragioni per cui il lavoro agile è ancora così ferocemente osteggiato e i nostri orari di lavoro ancora così inutilmente dilatati, rimane un mistero. Ma a farne le spese, come sempre, sono le nostre vite private.

Più diventiamo adulti, più cambia il modo in cui percepiamo lo scorrere del tempo

Allontanarsi da casa, viaggiare e avere esperienze fuori sede non è mai una cattiva idea. Anzi, la mobilità dei lavoratori è un grande patrimonio italiano, tanto che il Presidente Mattarella, in merito al report di Migranti, ha dichiarato che “la portata umana, culturale e professionale di questa presenza di italiani all’estero è di valore inestimabile nell’ambito di quel soft-power che consente di collocare il nostro Paese tra quelli il cui modello di vita gode di maggior attrazione e considerazione”.

Ma la lontananza dalle proprie famiglie, specie quando si diventa più adulti e si inizia a percepire il tempo in modo diverso, può diventare un peso psicologico non indifferente. Si acquisisce una maggiore consapevolezza che i legami familiari non vanno dati per scontati e potrebbe maturare in noi il desiderio di tornare a casa.

Il Covid-19 e la “ritornanza”

Per definire questo fenomeno, esploso anche a causa della pandemia, è nato il neologismo “ritornanza”: il rientrare in contatto con le famiglie e i territori, tornare ad abitare luoghi abbandonati da tempo è una necessità che ha coinvolto numerosi italiani, specie negli ultimi due anni. Certo, non sempre è stata una scelta volontaria: il caro vita e l’immobilismo dei salari hanno costretto alla chiusura migliaia di realtà lavorative e tanti sono rientrati nelle case d’infanzia non per nostalgia ma per impossibilità di tirare avanti.

Ma da uno shock collettivo come è stato il Covid-19 può nascere una nuova consapevolezza e da essa possono derivare trasformazioni del nostro modo di lavorare e nuove opportunità per le aree più marginalizzate del paese. E a dimostrarlo, sono i numeri.

Il valore della “nostalgia attiva”

Secondo uno studio di luglio 2022 di Movimprese, le nuove imprese italiane nate nel secondo trimestre di quest’anno sono oltre 32mila, con oltre un terzo di esse (11.500) concentrate al Centro-Sud. A guidarle sono spesso giovani, che hanno girato il mondo, per studiare e lavorare, e hanno maturato il desiderio di tornare. E non si può non trovare conforto nelle parole dell’antropologo Vito Teti, che ha coniato i termini “ritornanza” e “restanza”: “La stanzialità e la fuga sono due volti dello stesso fenomeno. Accanto al diritto di migrare, di spostarsi, quasi sempre per costrizione (fame, emergenze climatiche, guerre), si può e si deve rivendicare il diritto complementare di poter restare e di sopravvivere con dignità nel territorio dove si è nati, comunque si configuri la propria ‘identità’”.

“Occorre una ‘nostalgia attiva’, che sappia custodire memorie del mondo passato, ma non si accontenta dello status quo, delle devastazioni in atto, ed è capace di ‘guardare avanti’, di inventare qualcosa di nuovo, un altrove abitabile e possibile” continua Teti, anticipando chi vede, nel ritorno al passato, un movimento all’indietro, una involuzione di sé: la creazione di nuove opportunità riguarda invece il futuro, che possiamo ancora immaginare diverso.

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