Dopo l’entusiasmo iniziale per l’approvazione della legge sulla parità salariale, ci sono alcuni elementi da prendere in considerazione per non rimanere delusi in futuro se si sentirà ancora parlare di differenza economica tra uomini e donne
Gli uomini e le donne sono uguali? In potenza sì, in pratica meno, molto meno. Per colmare questo divario almeno in ambito lavorativo ci ha pensato il Parlamento italiano. Con un voto unanime sia alla Camera che al Senato, i parlamentari hanno di recente approvato le modifiche al Codice per le Pari opportunità, promosse dalle deputate del Partito democratico, Chiara Gribaudo (prima firmataria) e Valeria Fedeli. L’obiettivo è contrastare il fenomeno del gender pay gap in Italia. Siamo davvero certi però che una legge basterà a colmare il divario salariale (a parità oraria e di mansione) tra uomini e donne nella stessa azienda? Nì. Vediamo perché.
Tanti record negativi da superare
Non ci sono dubbi che la nuova legge sulla parità salariale sia necessaria e intervenga in un Paese che detiene record decisamente negativi. Stando alle ultime stime Eurostat l’Italia, infatti, è il primo paese in Unione europea per differenza occupazionale tra uomini e donne, differenza pari al 19,9%. Se invece si prendono in considerazione i dati raccolti dall’Osservatorio sui Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, la differenza nello stipendio netto mensile tra un uomo e una donna a cinque anni dal conseguimento della laurea è di oltre 500 euro. Ancora, le laureate magistrali a tre anni dal conseguimento del titolo hanno contratti part-time nel 21% dei casi, contro l’8% dei colleghi uomini.
La parità salariale è già scritta nella Costituzione
Tuttavia, dopo l’entusiasmo iniziale per l’approvazione di queste modifiche al Codice per le pari opportunità, ci sono alcuni elementi da prendere in considerazione per non rimanere delusi in futuro se si sentirà ancora parlare di differenza economica tra uomini e donne.
Prima di tutto, questa legge non dovrebbe servire, perché, in teoria, la parità salariale è un diritto costituzionale che dalla fine della Seconda guerra mondiale è previsto dall’ordinamento della Repubblica italiana. L’articolo 37 della Costituzione (in vigore dal 1948) recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
La critica perciò che muovono molti esperti di diritto del lavoro, tra cui anche l’economista e scrittrice Marta Fana, è che questa nuova legge sia “un surrogato che dà soldi alle imprese per rispettare un principio costituzionale”. La nuova legge approvata istituisce l’obbligo di presentare il Certificato della parità di genere per tutte le aziende con più di 50 dipendenti, da aggiornare ogni due anni. Per tutte le aziende virtuose sono previsti sgravi fiscali fino a un massimo di 50mila euro. Molti si chiedono perché si debbano premiare (pagando) le imprese che mettono in atto la parità di trattamento salariale quando invece dovrebbe essere un fattore culturalmente e socialmente normalizzato? Il rischio è che si inneschi una sorta di competizione tra aziende per dimostrarsi il più virtuose possibile, andando però perdendo di vista lo scopo primario della legge.
La maggior parte delle imprese in Italia ha meno di 50 dipendenti
Il secondo punto che fa storcere il naso è il numero minimo di dipendenti che deve avere un’azienda per rispettare la nuova norma. La modifica al Codice per le pari opportunità prevede che “le aziende sopra i 50 dipendenti dovranno compilare un rapporto sulla situazione del personale che conterrà molti indicatori, dai salari agli inquadramenti, dai congedi al reclutamento”. Peccato che in Italia, stando ai dati Istat 2020, le imprese medie (50-249 addetti) rappresentino soltanto il 2,2% del totale delle imprese attive in Italia, alle quali si devono aggiungere le 3.686 aziende con oltre 250 addetti. Per il resto, su 1.019.786 imprese attive in Italia, le microimprese (3-9 addetti) rappresentano il 78,9% del totale e quelle di piccole dimensioni (10-49 addetti) sono il 18,6%.
Un problema tutto europeo
Per quanto l’Italia non se la passi bene, il problema del gender pay gap riguarda molti paesi in Unione europea e non solo. Sempre stando alle più recenti stime Eurostat, il gap salariale a livello europeo (soltanto prendendo in considerazione la differenza tra i salari orari medi) si aggira intorno al 14,1%. La situazione peggiora ulteriormente quando invece si considera il divario retributivo complessivo di genere, includendo nell’analisi anche la media mensile di ore effettivamente retribuite e il tasso di occupazione reale. Sommando tutti i fattori, il gender pay gap arriva a una media del 36,7% nell’Unione Europea. L’Italia si piazza al terzo posto in Ue in questa classifica, con il 43%. Fanno peggio soltanto Paesi Bassi e Austria, a pari merito con 44,2%.
Forse esiste già la soluzione
Alla luce di questo quadro, perciò, la Commissione europea a marzo ha presentato una proposta di direttiva per rafforzare la parità retributiva di genere, che impone maggiore trasparenza e un migliore accesso alla giustizia. La direttiva (ancora da approvare) dà il diritto ai lavoratori di chiedere ai propri datori informazioni sui livelli salari medi nella propria azienda, ripartiti per genere. Non solo, la direttiva europea, se approvata, obbligherebbe le aziende con oltre 250 dipendenti a rendere pubbliche le informazioni sul divario retributivo e a effettuare periodicamente una valutazione dei salari in collaborazione con i sindacati, imponendo interventi correttivi quando il divario sia pari o superiore al 5% e non sia giustificabile in base a fattori oggettivi.
Venendo alle sanzioni, tra gli elementi più “duri” della proposta europea c’è quello che gli Stati membri dovranno adottare un “sistema sanzionatorio efficace”, che potrebbe prevedere anche la revoca di tutte le erogazioni pubbliche e l’esclusione dalle gare d’appalto. La nuova legge sulla parità salariale approvata in Italia invece, per ora, prevede soltanto sanzioni dai 1.000 ai 5.000 euro per le aziende che presenteranno rapporti non in linea con gli obiettivi prefissati, oltre alla sospensione dei benefici contributivi per le imprese poco trasparenti e che non presenteranno la certificazione. Insomma, l’iniziativa italiana è sì un piccolo passo avanti, ma decisamente molto più timido rispetto a un eventuale futuro recepimento della direttiva Ue (qualora fosse approvata).
Parità salariale in Europa: l’esempio della Gran Bretagna
Per capire cosa potrebbe succedere in Italia è bene dare uno sguardo all’estero, facendo un confronto con il Regno Unito. È dal 2017 che gli inglesi hanno introdotto per legge con l’Equality Act il gender pay gap reporting, che in soli due anni ha coinvolto il 100% delle aziende. In Gran Bretagna le imprese con oltre 250 dipendenti devono rendere pubblici i dati sulle differenze salariali ogni anno (e non ogni due).
Ma ci sono almeno due elementi che differiscono dalla legge italiana. Prima di tutto, la Gran Bretagna punta alla reale parità salariale tra uomini e donne in una determinata azienda; mentre invece in molti Paesi che adottano leggi sulla trasparenza salariale la tendenza è quella di concentrarsi sul principio di ‘equal pay for equal work’. L’approccio inglese va oltre questo principio (che per legge deve essere rispettato dal 1970) e si concentra sulla differenza salariale media tra tutte le donne e tutti gli uomini in una determinata azienda.
Il secondo elemento riguarda la sfera socio-culturale, decisamente poco considerata nelle modifiche italiane. Nel 2011, il Governo inglese ha lanciato l’iniziativa di reporting volontaria Think, Act, Report per promuovere una cultura di trasparenza nel mondo del lavoro e aiutare le aziende ad affrontare le cause del gender pay gap. Alla fine dei tre anni dell’iniziativa, più di 250 organizzazioni, che impiegavano più di 2,5 milioni di persone, avevano partecipato senza sentirsi ‘obbligate’ a raggiungere determinati obiettivi sotto minaccia di sanzioni.