Il Jobs Act, e in particolare l’articolo 18, sono tornati al centro delle cronache. A riaprire la questione è il Pd, con la neoeletta segretaria Elly Schlein. Che si è detta più volte contraria all’impostazione della riforma del lavoro voluta da Renzi, dichiarando di voler di nuovo mettere mano alla normativa sui licenziamenti senza giusta causa

Che ne sarà del Jobs Act, cavallo di battaglia del governo Renzi in carica nel 2014? Vale la pena chiederselo ora che alla guida del Pd si è insediata Elly Schlein, 38enne, nota per la campagna Occupy Pd ed espressione dell’ala più a sinistra del partito. Nel corso della campagna elettorale ha più volte definito “sbagliata” la riforma renziana. Una delle ultime occasioni è stata a fine gennaio parlando a Parma al circolo Arci Post: “Il Jobs Act è stato un errore, ed è stato un errore liberalizzare i contratti a termine”, aveva detto.

E lo aveva ribadito nel confronto tv su Sky TG24 qualche giorno fa, indicando tra i passi falsi dei democratici proprio il Jobs Act e i successivi decreti Poletti che hanno allargato le maglie della contrattazione a termine. Il modello è “la Spagna che ha limitato i contratti precari”, ha fatto sapere. E non è l’unica del suo partito a pensarla così. Anche Stefano Bonaccini, avversario di Schlein nella corsa alla segreteria del Pd, aveva confermato in una delle più recenti dichiarazioni di voler “reintrodurre l’articolo 18, perché toglierlo è stato un errore”.

 

L’articolo 18 il fulcro del Jobs Act

Di tutta la questione che ruota attorno al Jobs Act, l’articolo 18 è infatti il fulcro. È solo una delle modifiche introdotte, ma la più discussa. L’articolo 18 prevedeva, nella sua originaria versione all’interno dello Statuto dei lavoratori, una particolare tutela nei confronti dei lavoratori dipendenti che subivano un ingiusto licenziamento, senza quindi la cosiddetta ‘giusta causa’.

Per decenni la norma era stata bastione della sinistra. La sanzione applicata dai giudici era in tal caso l’obbligo per l’azienda di reintegrare il lavoratore allontanato, oltre a erogargli la relativa indennità. Ma con il decreto 23 del 2015, attuativo del Jobs Act, l’articolo era stato abolito. E di pari passo introdotta una nuova normativa che allineava l’Italia al resto dell’Europa, prevedendo un indennizzo “per il caso di licenziamento non adeguatamente motivato fino al limite massimo di 24 mensilità”, come spiega sul suo sito Pietro Ichino, giuslavorista tra gli ideatori della riforma.

 

L’abolizione dell’articolo 18 non ha influito sui licenziamenti

La decisione suscitò all’epoca polemiche a non finire. Anche se poi i licenziamenti tornarono a essere modificati nuovamente nel 2018 con il decreto Dignità sotto il primo governo Conte, con Luigi Di Maio ministro del Lavoro. Le mensilità di indennizzo diventarono a quel punto 36, collocando l’Italia al primo posto in Europa “per quel che riguarda l’indennizzo per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato”, continua Ichino. Eppure l’abolizione dell’articolo 18 non sembra aver avuto alcun impatto sul tasso dei licenziamenti. Sostiene il professore che “Come mostrano i dati forniti periodicamente dall’Inps, la probabilità di essere licenziati, per i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti, non ha subito variazioni rilevanti”. Anche perché è un altro l’elemento da considerare, e cioè che l’articolo 18 non si applicava alle aziende con più di 15 dipendenti, quindi alla stragrande maggioranza di quelle italiane.

 

I licenziamenti tutelati dall’articolo 18 sono una minoranza

Il Jobs Act, nella parte relativa all’articolo 18, si indirizzava quindi a una minoranza. Vale a dire che nonostante le feroci polemiche del momento, il suo contenuto non era poi così incisivo. Il sindacalista Marco Bentivogli nel libro del 2021 Il lavoro che ci salverà spiega che “Nel 2014, cioè prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, su 100 persone che avevano trovato un’occupazione, 85 non erano tutelate dall’articolo 18  (e non disponevano di tanti altri diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori)”. Espungere quella norma non ha fatto insomma la differenza. Se ha introdotto una sostanziale innovazione, è stata invece quella di ridurre la mole di procedimenti giudiziari in tema di licenziamenti ingiustificati. Dal 2012 al 2018, sottolinea Ichino, si è più che dimezzata.

 

La posizione di Schlein sul Jobs Act

“Dobbiamo cambiare rotta nelle politiche del lavoro” si legge sul sito di Elly Schlein. “Voltare nettamente pagina dopo gli errori del Jobs Act e del decreto Poletti sulla facilitazione dei licenziamenti e la liberalizzazione dei contratti a termine”. E poi ancora, “recepire nella legislazione le sentenze della Corte Costituzionale sulla disciplina dei licenziamenti illegittimi”. Il riferimento è alle decisioni della Consulta che stabiliscono che il risarcimento a cui ha diritto il lavoratore non deve essere legato alla sola ‘anzianità di contratto’ come avviene ora con il contratto a tutele crescenti introdotto appunto dal Jobs Act. Ma che va tarato anche su altri criteri, come per esempio le dimensioni dell’azienda o le condizioni imposte al lavoratore. Giurisprudenza che però lascia inalterato l’attuale impianto della riforma, che ha alla base l’assenza di reintegro nel posto di lavoro.

 

La vera estensione del Jobs Act

In verità il contenuto del Jobs Act ha un’estensione molto più vasta dell’articolo 18. Per la precisione, sottolinea Ichino, “è composto di otto decreti delegati emanati nel 2015”. E le materie regolamentate spaziano dagli ammortizzatori sociali alla disciplina dei licenziamenti e delle dimissioni, dai servizi di collocamento e formazione a quelli di ispezione, dalla disciplina del contratto a termine a quella del part-time. Dunque se si deciderà davvero di riformare il Jobs Act, bisognerà decidere in quale sua parte. Limitarsi a reintrodurre l’articolo 18 non avrebbe effetti significativi per la maggioranza dei lavoratori, né porterebbe secondo i dati a minori licenziamenti.

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