Come vedono il futuro i ragazzi italiani? Mentre un’intera generazione di “adulti” ripete che “i giovani non hanno voglia di lavorare”, la realtà è ben diversa: di voglia ce n’è eccome, ma a patto che si cambi musica. 

“Cosa vuoi fare da grande?” Chi mai, a 18 anni, ha saputo rispondere onestamente a questa domanda? Con l’avvicinarsi della fine della scuola, si profila all’orizzonte per milioni di studenti la prospettiva della ‘vita da adulti’: università, lavoro, famiglia. La società indica da anni questo percorso come quasi obbligato, senza fermarsi a domandare ai diretti interessati se sono davvero pronti a prendere delle decisioni che influiranno in modo così definitivo sulle loro vite. Con il risultato, emerso da una ricerca di Teen’s Voice realizzata in collaborazione con il dipartimento di Psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione dell’Università di Roma la Sapienza e il Salone dello Studente Campus Orienta, che il 18,7% degli studenti italiani non vuole o non è sicuro di voler continuare gli studi dopo il liceo. Bisogna iniziare a lavorare, subito, perché di lavoro ce n’è poco e di spazio per i giovani ancora meno.

Il punto è che l’adolescenza non termina magicamente con l’esame di maturità: gli anni della formazione, degli errori, dello ‘stay hungry, stay foolish’ di Steve Jobs, sono proprio questi. Pretendere che i ragazzi freschi di liceo intraprendano delle scelte così importanti genera nei giovani insicurezza, paure e ansie legate al futuro. A questo quadro dobbiamo anche sommare i risultati di due anni di pandemia e didattica a distanza, che hanno scavato un solco profondo nella psiche degli studenti.

Un futuro diverso

Nonostante tutto, però, la Generazione Z (i nati tra la fine degli anni ’90 e i primi anni ’10 del 2000) è composta da ragazze e ragazzi più consapevoli di sé stessi e del ‘potere’ che possono avere per cambiare il mondo. Lo abbiamo visto, ad esempio, con il movimento ‘Fridays for Future’ per l’ambiente, che ha avuto un’enorme partecipazione tra i giovani europei. E lo ha dimostrato anche un’indagine della fondazione Indipendente Openpolis, che descrive i ragazzi e le ragazze ‘speranzosi’ per il futuro, nonostante le enormi difficoltà dei nostri tempi, tra la pandemia ancora in corso e la guerra che è tornata in Europa.

Ma questa speranza è per un futuro diverso, non certo per un sistema che – specie negli ultimi anni – ha mostrato tutte le sue criticità. In primo luogo, come si diceva all’inizio, bisogna cominciare a considerare il fallimento non come un errore imperdonabile, ma come una normale tappa del percorso professionale: “Troppo spesso ai ragazzi viene chiesto di fare delle scelte per il loro futuro, senza concedere lo spazio e il tempo necessari per riflettere tra sé e sé, o ragionare con i coetanei e con gli adulti. Non saper scegliere la strada ‘giusta’, prendere decisioni che in futuro potrebbero precludere altre strade, non saper ‘fare un lavoro’, a volte addirittura non saper riconoscere le proprie capacità. A nostro avviso queste sensazioni nascono innanzitutto da una mentalità che ha insegnato, non solo ai giovani, che non si può sbagliare e che il fallimento è irreversibile” spiega Massimiliano Ventimiglia, CEO, di Onde Alte, società benefit e B Corp che insieme all’istituto Duni-Levi di Matera e ad altre scuole secondarie di secondo grado delle province di Matera e Potenza ha organizzato dei laboratori (l’ultima edizione è stata a gennaio 2022) in cui agli studenti è stato fornito uno spazio  per raccontarsi, svelare le proprie paure e confrontarsi sui cambiamenti della società.

Più che la ‘voglia di lavorare’ ai giovani mancano stipendi decenti.

Negli ultimi anni in Italia, complice anche una certa accondiscendenza dei media, si è diffusa una narrazione che si può riassumere nel classico ‘i giovani non hanno voglia di lavorare’. Moltissimi imprenditori, quasi tutti accomunati da un’età avanzata, lamentano una carenza di sacrificio e spirito di iniziativa nelle nuove generazioni. Ma come spesso succede quando si dà voce solo a una delle parti in causa, gli studenti raccontano una storia diversa.

Sappiamo per certo che l’Italia è il fanalino di coda d’Europa per quanto riguarda i salari (dati Eurostat) e dall’ultimo rapporto Oxfam sulle disuguaglianze (chiamato ‘Disuguitalia’) è emerso che “tra le forze attive del paese prevalgono le coorti più vecchie, nate fino alla metà degli anni ‘70, entrate nel mercato del lavoro in condizioni di maggiore stabilità e migliori tutele, andate via via riducendosi a seguito di una pervicace flessibilizzazione del mercato del lavoro”. L’aumento dell’età pensionabile non ha aiutato e il risultato è che l’Italia è un paese trainato da lavoratori più vecchi rispetto alla media europea.

Tutte queste criticità hanno contribuito alla nascita di una nuova ‘classe sociale’, quella dei ‘neet’: giovani  fra i 20 e i 34 anni di età che non lavorano, non studiano e non sono coinvolti in altri tipi di percorsi formativi e di avviamento al lavoro. Sono il 29.4% di quella fascia d’età, la percentuale più elevata dell’Unione Europea.

Come si diceva, insomma, l’adolescenza non termina a 18 anni e questo in Italia è più vero che mai: l’instabilità economica, l’impossibilità di lasciare la casa dei genitori e l’inoccupazione sono problemi che si trascinano fino a oltre i 30 anni.

Una soluzione? La scuola, come sempre 

Una possibile soluzione, oltre ovviamente a delle necessarie riforme politiche che adeguino il mercato del lavoro agli standard europei, potrebbe passare anche dalla scuola e dall’università. L’Italia è un paese di ‘sovraistruiti’: secondo il Rapporto Giovani 2021 dell’Istituto Toniolo, un giovane su tre nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni svolge un’attività professionale che richiede un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Se a questo aggiungiamo le già note difficoltà che si riscontrano nel trovare un impiego, non c’è da stupirsi se sono tantissimi i giovani che cercano all’estero migliori opportunità. E questo è un danno enorme per l’Italia, che perde capitale umano giovane.

Alessandro Rosina, professore ordinario di demografia e statistica sociale all’università Cattolica di Milano e coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo che è intervenuto nel rapporto, sostiene che bisogna “formare meglio i giovani, favorire canali di ingresso adeguati al mondo del lavoro (orientamento vocazionale, alla formazione e al lavoro), garantire loro sussidi di disoccupazione dignitosi nei periodi di fuoriuscita dal mercato del lavoro con un percorso di accompagnamento al rientro, programmi di riqualificazione, implementare politiche abitative adeguate (supporto agli affitti e all’acquisto della prima casa, social housing) che permettano ai giovani di avviare un ciclo di accumulazione della ricchezza”.

L’Italia, insomma, deve dare ai giovani la possibilità e il tempo di comprendere a fondo loro stessi e le proprie potenzialità, creando al contempo un mercato del lavoro accogliente e non basato su aspettative ormai inarrivabili. Ed accettare, insomma, come risposta alla domanda ‘cosa vuoi fare da grande?’ anche un più che legittimo ‘non lo so ancora’.