La direttrice di un Conad di Pescara ha seriamente minacciato le dipendenti di denudarle per scoprire chi di loro avesse dimenticato un assorbente usato in bagno. Il caso ha fatto clamore e la dirigente è stata allontanata, ma cosa dice il diritto rispetto alle umiliazioni sul luogo di lavoro?
In sintesi: una dipendente di un Conad di Pescara dimentica in vista in bagno un assorbente usato. Una dirigente minaccia con audio vocale di abbassare le mutande a tutte le dipendenti per scoprire la responsabile della dimenticanza, oltre a minacciare ripercussioni per tutte. Le dipendenti vengono effettivamente invitate alla assurda ispezione. La voce sulle minacce si diffonde e i lavoratori riescono ad attirare i riflettori sul caso. L’associazione sindacale Filcams Pescara, che ha denunciato l’accaduto, non sa quante dipendenti, tra le 12 che erano presenti quel giorno nel supermercato di Pescara, siano state costrette a spogliarsi e quante effettivamente lo abbiano fatto. La direttrice viene espulsa dal Conad, che poi procede alla risoluzione del contratto d’affitto d’azienda. Il supermercato resterà, e così chi ci lavora, ma non sarà più Conad.
Qualche nozione di base sul diritto del lavoro
Un caso incredibile eppure non così atipico, soprattutto in un mercato del lavoro spesso tossico come quello italiano. Ma cosa può dirci in proposito il diritto del lavoro? Esso nasce, fin dalla rivoluzione industriale, per disciplinare e risolvere conflitti e problematiche sociali connessi al mondo del lavoro. Nel nostro ordinamento, possiamo dire che esso serve a portare sul luogo di lavoro la Costituzione, che si caratterizza per la centralità riconosciuta alla tutela della persona umana e dei suoi diritti. Nel momento in cui lavoriamo, non smettiamo di essere cittadini, portatori di diritti e doveri. Tanto più se consideriamo la scelta dei nostri padri costituenti di fondare proprio “sul lavoro” la nostra Repubblica.
Su queste basi si può ben comprendere l’art. 2087 c.c., che recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La vicenda che ci arriva dal supermercato Conad di Pescara è inaccettabile, con contorni molto gravi che possono cadere anche nel penale costituendo “violenza privata” ai sensi dell’art. 610 c.p. Peraltro, rappresenta una forma di discriminazione collettiva nei confronti delle donne dipendenti del supermercato, che in quanto “sospettate” per ragioni biologiche si sono trovate a subire minacce o effettivi trattamenti degradanti esclusivamente sulla base di una condizione naturale che le accomuna.
Come avrebbe dovuto comportarsi la dirigente?
Ma allora come dovrebbe comportarsi un datore di lavoro di fronte a un dipendente che commette un errore? Innanzitutto, bisogna sapere che il potere del datore di lavoro si articola in tre funzioni:
- Potere direttivo
- Potere di vigilanza e controllo sui lavoratori
- Potere disciplinare
Per quanto riguarda il potere di vigilanza, un valido strumento è rappresentato dalle telecamere. Anche l’utilizzo di queste, tuttavia, è disciplinato in modo rigoroso. Per essere lecita, la telecamera in azienda deve essere visibile e nota ai dipendenti, i quali vanno informati della presenza di un controllo remoto. Lo Statuto dei lavoratori stabilisce che l’uso di telecamere all’interno del luogo di lavoro non può mai servire per controllare la prestazione dei dipendenti (ossia verificare se e quanto lavorano, se chiacchierano, se parlano al cellulare, ecc.).
La telecamera può essere installata solo per le seguenti finalità:
- per esigenze organizzative e produttive: (es. controllare il funzionamento di un macchinario)
- per ragioni di sicurezza: si pensi a una telecamera posta per dissuadere i ladri dalla tentazione di fare una rapina,
- per la tutela del patrimonio aziendale: si pensi a una telecamera posta nei vari reparti del supermercato per evitare che qualche cliente – o qualche dipendente stesso – prelevi della merce senza pagarla.
In questo caso, sarebbe stato opportuno il seguente iter:
- Verifica con il capo-reparto su chi era entrato in pausa quella mattina/pomeriggio, comunque in un certo lasso di tempo (di solito le pause sono scandite ai singoli dai responsabili di reparto) oppure verifica su chi abbia richiesto una pausa, magari per motivi urgenti;
- Il responsabile del personale convoca le varie persone individuate e, spiegando l’accaduto, cerca di accertare le responsabilità;
- Accertata la responsabilità, scatta la contestazione scritta con termine di n. 5 giorni alla dipendente per presentare le proprie giustificazioni o essere sentiti verbalmente a propria difesa (anche assistiti da delegato sindacale/ o un Legale di fiducia) ex art. n. 7 L. n. 300/1970.
Un altro esempio: i poteri disciplinari
Per quanto riguarda i poteri disciplinari, invece, è utile fare l’esempio del “rimprovero verbale”, cioè un ammonimento. È la sanzione più lieve, che un po’ a tutti capita prima o poi di ricevere. A differenza di tutte le altre sanzioni, l’ammonimento non richiede una particolare procedura da seguire, ma proprio per questo non può diventare una zona franca per insultare e offende il dipendente. Al contrario, deve limitarsi a descrivere la condotta scorretta con l’avviso al dipendente di non ripetere più la stessa azione, pena una sanzione più grave.
Il confine quindi tra il rimprovero (legittimo) e l’offesa (illegittima) sta nel fatto che il primo si limita a censurare il comportamento del dipendente, mentre la seconda sconfina in un’arbitraria aggressione nei confronti dell’autore di tale comportamento, con conseguente offesa alla sua morale, all’onore o alla reputazione.
Tutto quindi viene rimesso a un’analisi casistica delle espressioni utilizzate. Dire «Hai sbagliato, hai commesso un gravissimo errore, il tuo sbaglio è imperdonabile» è lecito perché il riferimento è all’agire del dipendente; dire invece «Sei un incompetente, un buono a nulla, un incapace» è illegittimo perché l’obiettivo è la persona, che si tenta in tal modo di umiliare.
La differenza tra mobbing e straining
Un altro concetto che è bene tutti conoscano quando si tratta di tutela della dignità del lavoratore è la differenza tra mobbing e straining, che è stata delineata dalla stessa giurisprudenza della Cassazione. Il termine mobbing è diffuso da diversi anni ed è costituito da una pluralità continuata di comportamenti dannosi all’interno del rapporto di lavoro, oltreché dall’intento persecutorio del datore di lavoro o dei colleghi. Lo straining, invece, è meno conosciuto e indica comportamenti “stressogeni”, cioè volti consapevolmente a stressare il lavoratore, anche se queste azioni vessatorie non sono continuate e sono limitate nel numero. Si potrebbe dire che lo straining è una forma “ridotta” di mobbing, ma da cui comunque è necessario tutelare il lavoratore.
Un consiglio generale
Il ruolo del diritto del lavoro è molto spesso sottovalutato, soprattutto dai dipendenti. Troppo spesso, rispetto casi di sfruttamento, abusi e vessazioni, ci si sente deboli, senza strumenti: si teme che il datore di lavoro possa fare terra bruciata attorno al dipendente che non verrebbe più assunto da altri. C’è naturalmente il senso di incertezza nel lasciare un lavoro (perfino a costo di subire umiliazioni) per cercarne un altro. In ogni caso, bisogna sapere che il diritto del lavoro esiste, come esiste una vastissima giurisprudenza dalla parte del lavoratore (tutelato proprio in quanto soggetto debole). Far valere i propri diritti, anche in giudizio, non è una strada disperata, ma molto spesso la soluzione più opportuna. Come scritto all’inizio: quando lavoriamo non smettiamo di essere cittadini.
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