La crescita economica continua e l’accelerazione dei ritmi dei mercati hanno fatto smarrire a molti lo scopo del proprio lavoro, stella polare in grado di unire e motivare un team di persone, guidate da un leader, nel raggiungimento degli obiettivi. Per questo sempre più aziende riflettono sulla possibilità di introdurre la figura del Chief Purpose Officer: il suo compito è tenere viva la comunicazione e l’attenzione sui valori individuali e organizzativi e si può dimostrare una valida soluzione per incentivare il benessere a lavoro e il successo di un’organizzazione

Nel contesto lavorativo odierno, le aziende devono fare i conti con esigenze di lavoratori che ragionano in maniera diversa rispetto alle generazioni passate. I Millennials e la Gen Z, per esempio, rivendicano il bisogno di svolgere un lavoro che guardi ad uno scopo sociale, prestando molta attenzione ai livelli di corporate social responsibility di un’impresa e alle implicazioni etiche e collettive di una visione strategica aziendale.

Il caso di Kanye West ne è un chiaro esempio: quando il celebre rapper ha fatto notizia per alcuni commenti antisemiti pubblicati sul web, in molti hanno chiesto ad Adidas di interrompere i rapporti con la celebrità. Ma potremmo anche citare la decisione di Patagonia di non apporre loghi sui vestiti per scoraggiarne lo spreco, alla luce di una forte sensibilità verso i temi ambientali e della volontà di restare fedele alla propria identità. E a tal proposito, una ricerca di Deloitte ha evidenziato che oggi numerosi consumatori prendono decisioni sulla base del modo in cui i brand hanno a cuore le persone, l’ambiente e le comunità destinatarie della loro azione.

Per un crescente numero di lavoratori è importante che l’attività svolta abbia uno scopo non strettamente circoscritto ai profitti o agli obiettivi organizzativi da raggiungere, insomma una motivazione di portata collettiva orientata a impattare positivamente sulla realtà. In assenza di questo elemento, i dipendenti sperimentano uno scollamento dai valori di appartenenza personali, e a pagarne il prezzo può essere la qualità stessa del lavoro. Si lavora peggio, dunque, e in determinati casi controvoglia e senza un vero coinvolgimento da parte dell’individuo, la cui realizzazione complessiva viene messa in discussione da una mancanza di senso in ciò che fa. A conferma di questo, uno studio condotto da Deloitte evidenzia che il purpose restituisce ai dipendenti un maggiore senso di appagamento e rende il business più attrattivo per gli stakeholders; insomma, che un’attività ha bisogno di essere significativa e non può (più) inseguire solo il profitto, ma piuttosto abbracciare i valori che le risorse professionali ricercano e vogliono condividere giornalmente sul luogo di lavoro.

Sembra insomma forte il bisogno di transitare verso quella forma di conscious capitalism di cui parlano John Mackay e Raj Sisodia per indicare un capitalismo non basato esclusivamente su fattori come lo scambio di utili o la competizione, quanto su un meccanismo che incorpora uno scopo collettivo al di là del lucro, una cultura basata sulla comunicazione e la fiducia tra le parti, un coinvolgimento di tutti gli stakeholders (inclusi gli impiegati, i consumatori e i fornitori, non solo gli investitori), una leadership consapevole, che guidi il business con la mentalità del “we”, piuttosto che del “me”.

Nonostante queste nobili premesse, tuttavia, il purpose gap è ancora un fatto lampante all’interno di moltissime aziende, spesso ormai ridotte a contesti tanto anemici quanto lo sono i dipendenti che si muovono al loro interno: in un studio della Harvard Business Review, sponsorizzato dallo EY Beacon Institute e condotto su un campione di 474 dirigenti, il 90% degli intervistati afferma che la loro azienda riconosce l’importanza di dotare di uno scopo l’attività svolta, ma solo una minoranza del 46% riferisce che il business dispone in concreto di uno “strong sense of purpose”.

 

Il problema del purpose gap

Facciamo fatica ad affrancarci da una visione del mondo aziendale incentrata sul soddisfacimento degli standard richiesti, in una sorta di automatismo produttivo che priva l’attività lavorativa di significato, e che ancora tiene troppo conto di quegli stessi imperativi finanziari da molti considerati alla base della crisi economica del 2008. Il ritmo di cambiamento dei mercati, la crescita e il consolidamento di determinati tipi di settori, poi, sono elementi capaci di allontanare le popolazioni aziendali e gli obiettivi ricercati dai valori desiderati, creando non pochi ostacoli all’interno di un’organizzazione.

Di conseguenza, l’assenza di un chiaro “perché?” dietro ciò che facciamo mette al mondo dipendenti più esposti al rischio di burnout, meno motivati, incapaci di sentirsi coinvolti e meno produttivi: difatti il lavoro, questo dice un’illuminante analisi diretta dalla University of Sussex, è diventato una battaglia per i cuori e le menti, anziché per regole e doveri.

In generale, dopo la pandemia di Covid-19 stiamo sperimentando una sensazione di vuoto che ha spostato i riflettori su ciò che per noi è significativo, portandoci a confrontarci con bisogni e desideri che vogliono dare un senso alle attività che svolgiamo, incluse quelle lavorative. Per di più, ci troviamo nel mezzo di una rivoluzione in cui i dipendenti valutano la presenza di un purpose ben definito da parte dell’azienda e da loro condiviso, un fattore in grado di fare la differenza nel decidere se accettare o meno un impiego.

Comunicare l’importanza di ciò che si persegue, per un’azienda, è strategico anche per la crescita del business e sul mercato globale: i dati, in questo caso, riportano che il 52% delle organizzazioni incentrate su princìpi condivisibili sperimentano una crescita superiore del 10% rispetto alle altre realtà, sviluppandosi a livello internazionale del 66% in più.

Per colmare questa distanza tra il “cosa facciamo” e il “perché”, e per ascoltare quella fetta sempre crescente di dipendenti che non intendono lavorare (solo) per uno stipendio o uno status da raggiungere – che quindi, parafrasando il concetto di “Golden Circle” di Simon Sinek, non scelgono tanto il lavoro, quanto un significato dietro la propria professione – alcune aziende stanno optando per l’introduzione di una nuova figura, il Chief Purpose Officer. Quest’ultimo ha il compito di ricordare alla popolazione aziendale perché è importante il lavoro che tutti, in relazione al ruolo, svolgono, e il modo in cui quell’attività impatta sulla società. La risorsa finisce allora per sentirsi parte di un progetto più grande di sé, dell’azienda e delle logiche di profitto fini a sé stesse.

 

“Ricordati perché lo fai”: ritrovare un senso sul lavoro con il Chief Purpose Officer

Potremmo definire il Chief Purpose Officer, o CPO, come quella figura responsabile di tenere viva la comunicazione sull’importanza di un’operato: si assicura che i propri colleghi comprendano il senso del loro agire e di quello dell’azienda, vedendo in entrambi strumenti per una causa sociale. Nell’essere garante dell’immagine sociale dell’impresa, il CPO non ne migliora solo la percezione che si ha dall’interno, ma anche dall’esterno, potenziando l’interesse da parte di nuovi clienti e investitori e attraendo maggiore profitto. Infine, tramite un dialogo che non trascura le potenzialità e qualità di ciascuno, il CPO stimola una riflessione creativa attorno ai problemi, aprendo la strada a soluzioni inedite e innovative.

Stiamo parlando di un leader di tipo nuovo, che si dimostra capace di ispirare il proprio team e generare fiducia tanto dentro quanto fuori le mura aziendali, unendo persone che condividono valori comuni e l’idea di agire per fare la differenza. Non solo: il CPO può condurre a modi alternativi di fare azienda anche in quanto incaricato di valutare l’applicabilità di un progetto sulla base della sua aderenza ai valori dell’organizzazione. Proprio come un Chief Financial Officer (CFO) farebbe nel verificare la fattibilità di un’iniziativa alla luce dei fabbisogni finanziari dell’azienda.

La cosa importante da capire è che il fenomeno del Chief Purpose Officer, già presente in aziende come Cisco, Hasbro, Deloitte, PwC e Intrepid Group, ha origine dai dipendenti: come mostra una ricerca di Gartner in ambito HR, il 68% degli impiegati sarebbe disposto ad abbandonare il proprio luogo di lavoro a favore di altri che hanno a cuore tematiche sociali e culturali, motivo per cui questa figura costituisce un trend professionale emergente che non potrà essere ignorato nei prossimi anni. Un trend, peraltro, strettamente legato alla felicità individuale: se le persone agiscono per uno scopo definito, tendono a raggiungere maggiori livelli di soddisfazione nella vita.

L’introduzione del CPO nell’organigramma aziendale potrebbe altresì diventare una valida soluzione all’emergenza delle Grandi dimissioni che abbiamo imparato a conoscere in questo ultimo periodo, incrementando notevolmente i livelli di retention: un’azienda i cui dipendenti sono motivati da obiettivi e valori percepiti come importanti per la vita quotidiana è una in cui si è incoraggiati a rimanere, in cui si sente di aver trovato una propria collocazione, un goal a cui dedicarsi giorno per giorno. In definitiva, un posto in cui poter costruire qualcosa di bello e soddisfacente.

Pur nella consapevolezza che non si possono più ignorare questioni di natura sociale e legate al benessere psicologico dei propri lavoratori, per un’azienda la scelta di reclutare un CPO può comunque risultare complessa, considerando l’esperienza e i requisiti richiesti ad una figura chiamata ad accertarsi che ciò che l’impresa rappresenta corrisponda a ciò che dice e fa, o se essa incorra in pratiche di woke washing. È pertanto cruciale per l’organizzazione e per il CEO – figura chiamata a lavorare all’unisono con il CPO – comprendere l’importanza e l’impatto che il Chief Purpose Officer produrrebbe sul business, e insieme, sulle condizioni dei dipendenti, specie in virtù del legame tra salute mentale e lavoro evidente agli occhi di tutti.

 

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