Nell’ultimo decennio appena il 4% dei disoccupati ha trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego, che pure avranno un ruolo nel Pnrr. In Italia sono troppo pochi, con poche risorse e un personale poco formato. Fra scarsa offerta di lavoro e nuove tecnologie che avanzano, è urgente ripensarli profondamente

Nell’ultimo periodo sono usciti alcuni dati preoccupanti sul mondo del lavoro, sintomatici di un annoso problema italiano. Si tratta del Rapporto ANPAL (Agenzia nazionale per le politiche attive per il lavoro) pubblicato alla fine del 2021 e dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), e parlano dei centri per l’impiego. Tutti abbiamo almeno sentito parlare di questi centri: sono strutture pubbliche coordinate dalle regioni che si occupano di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, oltre che di promuovere alcune politiche attive come il rilascio di certificati o l’iscrizione dei lavoratori in appositi elenchi (categorie protette, liste di mobilità…). I principali destinatari di queste importanti attività sono i disoccupati, gli occupati in cerca di una nuova posizione, imprese e datori di lavoro in cerca di personale o persone che beneficiano di strumenti di sostegno al reddito, come il famoso reddito di cittadinanza.

Ebbene, guardando ai risultati emerge un enorme problema: secondo i dati INAPP, solo 4 disoccupati su 100 trovano lavoro grazie ai centri per l’impiego.

Cosa ci dice il rapporto ANPAL

Il rapporto dell’ANPAL vuole proprio offrire una panoramica sulle condizioni dei centri per l’impiego e sulla loro capacità di implementare le attività cui sono preposti. L’ultimo rapporto  contiene una significativa novità rispetto al precedente, del 2017, ma conferma una tendenza desolante. La novità è data dal reddito di cittadinanza, che grava i CPI di un ruolo ulteriore e complesso, incarnato dalla discussa figura dei “navigator” cui questi uffici, a detta di molti commentatori, non erano preparati. Queste figure, assunte nell’agosto 2019 e chiamate ad assistere i percettori del sussidio nella loro ricerca di un’occupazione, sono state “licenziate” dalla nuova legge di Bilancio, che ha previsto dal 1° gennaio 2022 l’addio ai navigator. In sostanza, ora che questo breve e controverso capitolo si è chiuso (di fatto, dopo essere stati formati i 2.980 navigator non hanno mai svolto effettivamente quel ruolo), la gestione dei beneficiari del Rdc torna  esclusivamente in capo ai soli operatori dei Centri per l’impiego, che tornano anche ad avere i problemi di “ieri” ma con le nuove difficoltà di oggi, dovute soprattutto all’emergenza sanitaria e alla crisi economica e occupazionale che quest’ultima ha contribuito ad aggravare nel nostro Paese.

La tendenza desolante è infatti più articolata e tutta da (ri)scoprire: il dato più evidente è lo squilibrio drammatico tra l’offerta (i servizi che il CPI è in grado di offrire) e la domanda (le persone che si rivolgono ai centri per ottenere qualche aiuto). I centri per l’impiego sono troppo pochi: 551, con un personale composto da 7722 unità, che peraltro vanno riducendosi negli ultimi anni per via del turnover. Rispetto a vent’anni fa, con un mercato del lavoro più complesso e il susseguirsi di gravi crisi economiche, si tratta di duemila unità in meno. Il paragone con Paesi cui dobbiamo guardare è impietoso: in Francia sono 50mila unità, in Germania addirittura più di 100mila.

Un problema di capitale umano

I problemi non finiscono con questi numeri, già di per sé lapidari: si tratta di un personale relativamente anziano (un’età media di 55 anni) e con un basso livello di istruzione, dal momento che neanche un terzo del personale risulta laureato. I dati sul titolo di studio sono significativi, perché sembra sortire un notevole impatto sul livello di soddisfazione dei destinatari, che, fra disoccupati e imprese, si aggira attorno al 50/60% a seconda dei casi. Da notare anche che si tratta per lo più di laureati in giurisprudenza e scienze politiche, una formazione che secondo il prof. Pastore (Vanvitelli) sarebbe più adatta per “l’assolvimento di procedure burocratiche che per l’offerta di servizi di collocamento, di bilancio e certificazione delle competenze, per non parlare della formazione professionale, che, comunque, viene delegata in genere all’esterno a scuole specializzate“.

Mai dire GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori)

Eppure, i centri per l’impiego hanno un ruolo centrale anche nei piani del Governo Draghi. Il famoso Titolo V della Costituzione (quello che disciplina regioni, province e comuni) attribuisce alle Regioni poteri sulla formazione professionale e politiche attive del lavoro. Di conseguenza, anche il famoso Pnrr deve definire il Piano nuove compete formative e il “GOL” attraverso l‘accordo fra Stato e Regioni. Parliamo di cifre non esigue: circa 5 miliardi di euro, che dovrebbero servire ad aiutare a trovare lavoro a circa 3 milioni di persone. A questo punto, a fronte dei dati sconfortanti di cui sopra è lecito chiedersi se siano stati impiegati nel modo più efficiente. Se i CPI sono riusciti negli ultimi anni a intermediare efficacemente solo una modesta cifra tra il 2-4% dell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, garantendo una formazione professionale essenzialmente mansionaria, spesso datata, è opportuno disporre così tante fiches su questa casella?

Che fare? Un problema che sta a monte

Certamente negli anni non sono mancate autorevoli proposte di riforma dei centri per l’impiego. Dal momento che oggi gran parte del loro lavoro risulta puramente burocratico, non è difficile immaginare prospettive di conversione digitale di molte delle loro attività: pensiamo per esempio alla registrazione delle dichiarazioni di disponibilità al lavoro e le attività protocollari per quanto riguarda disabilità e certificazione per tirocini extra-curriculari. Ma nel contesto italiano del 2022 è probabilmente necessario porsi una domanda ancora più radicale: se i Cpi servono a far incontrare domanda e offerta di lavoro, possono davvero svolgere un ruolo significativo in un Paese che vede da molti anni una offerta di lavoro asfittica?

Il problema si pone, peraltro, in un mondo in cui un ruolo non indifferente è svolto da servizi web volti alla promozione di reti professionali, come LinkedIn, il cui scopo primario è proprio quello di creare matching tra domanda e offerta di lavoro. Allo stesso modo, molte società si avvalgono di servizi di headhunting nella ricerca di lavoratori più qualificati, lasciando spesso a CPI i lavoratori più difficilmente convertibili (o integrabili) nel mercato. Inoltre, il contesto italiano risulta particolarmente incline alla segnalazione dei lavoratori, nonché al sostegno economico, tramite reti familiari, di relazioni e di conoscenze. Molti ricorderanno ancora la significativa frase dell’allora Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, secondo cui “nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula” (sic.).

Per tali ragioni, al netto delle best practices europee possibilmente implementabili, è bene orientare i centri per l’impiego verso funzioni più specifiche incentrate sull’orientamento e su una formazione anche basilare dei lavoratori meno qualificati. Corsi di alfabetizzazione digitale o di altro tipo, colloqui di orientamento sul mercato del lavoro, trasmissione di competenze fondamentali ma meno diffuse di quanto si potrebbe pensare, come la mera redazione di un curriculum. Come già scritto in passato da due studiosi,  “in tutti i centri per l’impiego dovrebbe essere presente una seria attività di orientamento professionale, anche attraverso l’utilizzo di modelli informatici predittivi per attività di targeting, come avviene in Svizzera, e l’assistenza da parte di psicologi del lavoro per i soggetti più difficili da collocare in modo da sviluppare un buon bilancio di competenza“.

Ripartire dalle funzionalizzazioni più semplici e da un focus sui lavoratori più umili, riducendo velleità di matching di lavoratori qualificati è il primo passo per ridare ruolo ed efficacia ai Cpi nel mondo di oggi.