Vista l’esplosione del fenomeno del quiet quitting e l’aumento di casi di burnout, soprattutto tra gli under 35, abbiamo chiesto ai sociologi del lavoro Fabrizio Pirro (Università La Sapienza) e Antonio Cocozza (Università degli Studi Roma Tre) in che modo i giovani italiani stanno reagendo al grido di protesta contro la Hustle Culture, e quali soluzioni intravedono per abbattere precarietà e povertà lavorativa

Mancanza d’opportunità di sviluppo delle proprie competenze, assenza di coinvolgimento emotivo, disagi emotivi per esaurimenti e pressioni sul luogo di lavoro. Tutto questo in uno scenario di dilagante precarietà e alta povertà lavorativa (cioè occupazione in condizioni che non permettono di uscire davvero dallo stato di povertà). Come dimostrano diverse ricerche, in tutto l’Occidente i lavoratori – in particolare gli under 35 – stanno sperimentando sempre più spesso il burnout, quella condizione che l’Oms definisce come “una sindrome conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo”, mentre nel frattempo è esploso anche in Italia il fenomeno del quiet quitting, che si traduce con “abbandono silenzioso” e che sta ad indicare la tendenza a svolgere, sul lavoro, solo lo stretto necessario, rifiutandosi di fare straordinari o assumersi compiti e responsabilità che vanno oltre le proprie mansioni.

Un fenomeno che si è aggiunto a quello delle Grandi Dimissioni che, partito dagli Stati Uniti subito dopo lo scoppio della pandemia e i primi lockdown, si è poi allargato a macchia d’olio, raggiungendo l’Europa e l’Italia: anche in questo caso si è trattato di un trend economico legato al mondo del lavoro, che ha visto milioni di persone lasciare il proprio impiego soprattutto per il rifiuto di modelli di vita diventati insostenibili, a maggior ragione a fronte di attività ritenute poco soddisfacenti.

In Italia nel 2022 le dimissioni sono state 1,6 milioni, 300mila in più del 2021. Tuttavia, analizzando il contesto italiano ed europeo, alcuni hanno parlato più che altro di Grande turnover: persone qualificate e di classe medio-alta (ingegneri, informatici, chimici, medici, architetti, geometri, ma anche periti e operai di primo livello) che si dimettono per cambiare lavoro, intercettando la nuova ricerca di personale specializzato da parte delle aziende. Una ricerca dovuta all’aumento della domanda dopo il Covid e alla necessaria gestione degli ingenti fondi europei.

Ma in che misura i diversi trend osservati, e che segnano una nuova era che rifiuta i “dogmi” della Hustle Culture (una cultura che enfatizza il duro lavoro come unica via per il successo), stanno coinvolgendo i lavoratori italiani? Lo abbiamo chiesto ai sociologi del lavoro Fabrizio Pirro dell’università La Sapienza e Antonio Cocozza di Roma Tre.

 

La perdita di centralità del concetto di lavoro

Secondo una ricerca di Workplace Intelligence, negli Usa il 74% dei dipendenti Millennial e Gen Z è intenzionato a lasciare il posto di lavoro entro la fine dell’anno a causa della mancanza d’opportunità di sviluppo delle proprie competenze e dell’assenza di coinvolgimento emotivo. Per Cocozza e Pirro anche in Italia il fenomeno c’è, ma parlare propriamente di Great Resignation nel nostro Paese è prematuro, in quanto non ci sarebbero dati e prove che lo confermino del tutto, a fronte di un mercato del lavoro europeo molto diverso da quello americano.

Condurre poi una ricerca del genere ha dei profili di problematicità rispetto al campionamento e alla conseguente plausibile rappresentatività dei soggetti. Quello del quiet quitting (l’assenza di coinvolgimento emotivo nel lavoro), poi, è un fenomeno difficilmente quantificabile. Tuttavia Cocozza spiega che si tratta di una “risposta individuale a un problema di sistema”.

Pirro nota come ci sia “una progressiva perdita di centralità del valore dell’operosità, ma ciò non può prescindere dal bisogno di una fonte di reddito dei soggetti”. Insomma, soprattutto chi se lo può permettere per qualifica o condizione familiare/patrimoniale, è meno soggetto rispetto al passato a considerare la centralità del lavoro nella sua esistenza, non indentificandosi più per forza solo con esso. Chi è invece in condizioni peggiori lavora spesso esclusivamente per sopravvivenza, senza passione.

Così, spiega Cocozza, in Italia “la soddisfazione nel lavoro si raggiunge davvero solo nelle imprese socialmente responsabili e nelle pubbliche amministrazioni virtuose, attraverso un incremento del grado di autonomia professionale e di responsabilità nell’assunzione di decisioni”.

 

I salari bassi e la necessaria flessibilità

In questo scenario entrambi i professori indicano nelle basse retribuzioni italiane, soprattutto dei giovani e delle donne, il principale problema, che secondo Pirro “la flessibilità organizzativa può risolvere solo in parte”. In ogni caso, aggiunge Cocozza, “sono destinati a cambiare i processi produttivi, l’assetto degli orari, le relazioni di lavoro, nonché la realtà quotidiana, poiché si stanno rimodulando tempi, qualità e stili di vita, lo smart working e il bilancio tra tempo di vita e tempo di lavoro”.

Per questo la formazione e il processo di lifelong learning assumono un ruolo strategico, in quanto “migliorano il grado di empowerment del collaboratore sul mercato del lavoro”. Anche la ricollocazione all’interno delle aziende con ruoli e responsabilità diversi può aiutare, ma richiede per entrambi i professori degli interventi personalizzati. Un esempio significativo è rappresentato dal Ccnl dei metalmeccanici, che ha previsto l’avanzamento professionale per competenze.

 

Settimana corta di lavoro: è una possibile soluzione?

C’è poi la questione del burnout. Secondo una ricerca dell’Osservatorio WellFare, sei giovani lavoratori su dieci in Italia soffrono di disagi emotivi per esaurimenti e pressioni sul luogo di lavoro.

Secondo il docente di Roma Tre “bisogna puntare su un sistema produttivo di qualità, che deve essere maggiormente sostenuto e integrato con politiche scolastiche e universitarie all’altezza della sfida”. In questa prospettiva “si può prendere in esame l’ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro, in una diversa rimodulazione tra tempo di vita, di lavoro e per lo studio”.

Insomma, come dimostrano gli esempi virtuosi di Belgio e Regno Unito, la settimana corta di lavoro (di quattro giorni o quattro giorni e mezzo) a parità di salario può essere una via da intraprendere anche per il nostro Paese. Non a caso il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha parlato di un approfondimento in corso da parte del governo Meloni.

 

Modello liberista in crisi

In ogni caso, secondo Pirro rinnovare i contratti collettivi, eliminare quelli pirata, disboscare le forme contrattuali precarie e far crescere i salari, tagliando le tasse, potrebbe “ridurre la fascia sociale che percepisce la propria condizione come incerta e quanto meno diffondere un clima di maggiore ottimismo”.

I fenomeni che si osservano oggi tra i lavoratori, in qualche modo – notano infine i professori – sembrano in parte andare contro una certa retorica che hanno sostenuto vari esponenti del mondo politico ed economico negli ultimi 20-30 anni, sulla scia degli Stati Uniti e di vari Stati europei: il segreto del successo del lavoratore risiederebbe esclusivamente nel dinamismo e nel cambio continuo di occupazione, in uno scenario di deregulation su assunzioni e licenziamenti.

L’affermazione individuale – spiega Pirro – è un valore parte integrante del modello liberista. Si è quindi solo veicolato questo modello, presentandolo come unico e positivo. Il vero problema, però, non è il ‘posto fisso’, quanto piuttosto il ‘reddito fisso’, o meglio garantito e prolungato nel tempo. Ciò permette di progettare e prospettare il futuro, evitando di essere in un eterno presente. E questo probabilmente distingue la cultura statunitense da quella europea e asiatica, dove la dimensione storica è parte integrante della nostra visione del mondo”.

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