«Quando si inizia un percorso per il miglioramento della propria salute mentale, o di quella dei propri dipendenti, è difficile far capire che i risultati non sono immediati. Se non si parla di numeri o fatturato, il pregiudizio è che non ci sia concretezza». Anna Stellari, professionista appassionata di crescita personale, ci ha parlato di Well-being washing e di quel legame indissolubile tra benessere psicofisico e qualità della performance lavorativa

 

Se da un lato esistono il Pinkwashing e il Greenwashing – quando sostanzialmente l’interesse di un’azienda o di un’organizzazione nei confronti, rispettivamente, delle questioni di genere e ambientali resta solo di facciata e determinati purpose vengono utilizzati, anzi, solo per coprire comportamenti che viaggiano in direzione completamente opposta  – dall’altro non poteva mancare il Well-being Washing: sembra che l’azienda si adoperi per il benessere dei propri dipendenti, ma in realtà tutto ciò che fa è privo di fondamenta solide e non comporta un beneficio concreto per i suoi lavoratori.

Secondo quanto riportato da un’indagine di CIPD, il Chartered Institute of Personnel and Development, associazione internazionale di professionisti della gestione delle risorse umane, più di due dipendenti su tre (67%) sperimentano livelli da moderati a elevati di stress sul posto di lavoro. E più di un quarto (28%) ritiene che la propria produttività abbia subito un impatto negativo a causa dello stress negli ultimi due anni.

Prendiamo l’esempio di un’azienda che, per diminuire lo stress tra i suoi lavoratori e contribuire al loro benessere, decide di introdurre una serie di servizi, di celebrare le giornate di sensibilizzazione sulla salute mentale o di promuovere attraverso i propri canali social iniziative che viaggiano in questa direzione, ma in modo solo occasionale e, soprattutto, mai concreto.

Abbiamo parlato di queste “verniciate di benessere” che spesso fanno le aziende con Anna Stellari, millennial mentor di PWN Milan, associazione che mira a promuovere lo sviluppo personale e professionale femminile, e digital communication manager di Mindful Vision, società che promuove e diffonde i valori della Mindfulness.

 

Quali difficoltà hai riscontrato da parte delle aziende e delle persone che iniziano un percorso volto alla propria crescita?

Anna Stellari

Lavorare su se stessi è un processo che richiede tempo, ed è importante che le persone siano consapevoli di questo, che non vedranno risultati immediati. Anzi, se per esempio sono una persona ansiosa, è importante che io mi metta in ascolto di quella emozione e la accolga, prima di eliminarla.

È un approccio quasi “straniante” per quest’epoca: oggi siamo abituati a cose veloci, tangibili, immediate e non siamo abituati a ragionare sul lungo termine. Un percorso su se stessi richiede lentezza, fiducia, allenamento e addirittura noia. Soprattutto ti chiede di rimanere, quando invece siamo abituati a scappare da certe emozioni.

Per esempio, se dico a qualcuno che sto male, mi verrà quasi sicuramente risposto di non pensarci e fare altro per distrarmi, mentre è importante ascoltare quella sofferenza. Dobbiamo imparare a stare lì con la nostra irrequietezza, tristezza o malessere che sia. Non è un processo che si può forzare.

Mi ricordo di un manager che ogni volta, dopo aver finito una pratica di meditazione con noi, diceva di sentirsi scomodo e non a suo agio. Nonostante ciò, ha portato a termine il suo percorso e dopo qualche tempo ci ha ringraziati dicendoci che era riuscito a empatizzare con un collega con cui aveva difficoltà a relazionarsi. È riuscito a fare questo proprio perché ha riscontrato in lui la stessa difficoltà che viveva quando provava a mettersi in ascolto di se stesso.

 

Perché parlare di sofferenza o emozioni sul lavoro è così difficile? Qual è la vostra esperienza al riguardo?

Ci sentiamo spesso dire che le emozioni al lavoro non le dobbiamo portare. C’è chi è convinto che sia possibile lasciare le emozioni a casa, ma dimostra ignoranza, dato che all’origine di questo modo di pensare c’è proprio un’emozione e si chiama paura. In uno degli ultimi percorsi che stiamo facendo, un direttore ha mandato un messaggio ai propri manager dichiarando il suo senso di stanchezza e di fatica. Il lavoro che stiamo facendo riguarda proprio il comunicare sia quando le cose vanno bene, sia quando vanno male.

Ci sono arrivati molti messaggi di ringraziamento. Le persone hanno risposto in modo potente, perché hanno visto per la prima volta nella figura di un professionista, apparentemente rigido e invulnerabile, un essere umano capace di comunicare le sue difficoltà. Questo modo di comportarsi crea legami e senso di appartenenza, oltre al fatto che la voglia di fare ne risente positivamente. Crea una qualità di lavoro differente e va a impattare su quello che fai. Solo che per fare tutto questo c’è tanto lavoro dietro, a partire dallo smontare gli stereotipi, i pregiudizi e fare tanta chiarezza, oltre ad educare e sperimentare.

 

Quando e come vi accorgete se un’azienda non è realmente interessata al benessere dei propri dipendenti e fa well-being washing?

Ce ne accorgiamo subito perché ce lo chiedono così: “vogliamo questa cosa ma spot”, “facciamo questo, ma deve essere veloce”; oppure: “si è così, però vogliamo lo strumento di valutazione per poter misurare concretamente il risultato”. A quel punto noi molliamo, perché se non c’è fiducia non si può iniziare un percorso insieme. Abbiamo la fortuna di poter dire di no.

Oppure ci sono altre situazioni in cui ci viene detto che le nostre soft skills non sono necessarie, e anche in questo caso capiamo che non ci sono le premesse per lavorare insieme. La cura della salute mentale dei propri dipendenti non è qualcosa che può essere sminuito, e i benefici non sono immediatamente misurabili.

 

Ora nel linguaggio dei formatori le soft skills sono diventate le “power skills”, non a caso. Quali sono, invece, i progetti di cui vi state occupando e di quali vi occuperete in futuro?

Con le aziende portiamo avanti due tipi di progetti: il primo è rappresentato da dei percorsi di mindfulness, il secondo da quelli incentrati sul benessere della persona. A questo proposito, mi viene in mente l’ultimo progetto a cui ci siamo dedicati, che mette al centro il wellbeing e riguarda diverse competenze, tra cui l’intelligenza emotiva e il sapersi prendere cura delle proprie persone.

Di recente mi sono appassionata al tema della diversità, del linguaggio e dell’impatto che le parole possono avere. Insieme ad un’altra persona del team stiamo studiando e approfondendo questi argomenti, perché vorremmo dare vita ad una nuova iniziativa al riguardo. Questa sinergia, insieme alla possibilità di creare progetti che per me sono di valore, mi fa sentire gratificata.

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