«Siamo sempre stati direzionati dalle scienze esatte, dalla performance come misuratore di successo. Invece, le scienze umane sono qua proprio per dimostrarci che serve anche guardare le cose da un punto di vista qualitativo, non solo quantitativo», così Karen Ricci, fondatrice di “Cara, sei maschilista!” e consulente D&I. «Utilizzare dei linguaggi – conclude – con cui le persone si possono identificare e che fanno parte della vita di tutti i giorni, è fondamentale». 

Se da un lato è vero che i social media possono mettere a rischio la salute mentale dei giovani, dall’altro è possibile riscontrare come questi siano anche di supporto nel normalizzare situazioni come quella relativa all’importanza della tutela della salute mentale, per esempio, dando voce a bisogni e verità, che altrimenti sarebbe difficile comprendere o conoscere.

Ci sono community che hanno permesso alle persone di identificarsi con un disagio o una difficoltà, alleggerendo il loro carico e creando consapevolezza. Tra queste c’è la pagina Cara, sei maschilista!, che su Instagram spiega in modo accessibile a tutti e tutte i pregiudizi legati al maschilismo interiorizzato e alla disparità di genere.

 

Come è nato il progetto Cara, sei maschilista! e quando?

Io sono di origine brasiliana e quando, anni fa, sono venuta in Italia per lavorare, ho cominciato a scorgere diversi pregiudizi all’interno delle aziende. Mi sentivo sola perché non c’era qualcuno con cui io mi potessi confrontare. Era il 2013 e di femminismo se parlava poco, anche sui social. Così mi è venuta in mente l’idea di creare la pagina Facebook “Cara sei maschilista” in cui riportavo quello che vivevo quotidianamente, dal maschilismo interiorizzato ad altre difficoltà del genere. Non riuscivo più ad ascoltare e farmi andare bene frasi del tipo: “Io preferisco lavorare con gli uomini” o che vedevano le donne darsi addosso a vicenda.

La prima reazione che ho ottenuto è stata respingente, le persone attorno me si sono sentite giudicate. Quando, però, ho iniziato a spiegare il perché, la situazione ha cominciato a cambiare e la pagina è cresciuta in modo organico, fino ad arrivare a una community di cinquantamila persone.

Poi nel 2016, ho aperto anche il profilo su Instagram e ho iniziato ad avere un seguito molto più grande, fino a quando nel 2021 Mondadori mi ha proposto di scrivere un libro sul mio progetto. Così la community è cresciuta ancora di più. Io, però, nel frattempo stavo continuando a lavorare nel mondo della moda, dove ho continuato a lavorare fino allo scorso anno.

Di recente è anche nato un podcast, nato in modo indipendente con un’amica e che poi ho portato avanti da sola, intervistando persone del settore. Sono arrivata ai duecentomila ascolti.

 

Si può dire che la creazione di una community sia stata alla base del tuo lavoro.

Esatto, questo insieme alla mia esperienza nella comunicazione come brand manager, mi hanno aiutata a creare un progetto di attivismo sociale. Nulla è stato improvvisato, l’obiettivo era quello di utilizzare un linguaggio che fosse di semplice comprensione e accessibile. Parlarne in modo che il contenuto fosse poi condivisibile sui social media e in modo che le persone si identificassero, mi ha permesso di continuare su questa strada.

 

Che consiglio daresti a chi vuole creare un progetto di successo sui social media, come hai fatto tu, partendo da zero?

Quando è nato non avevo l’intenzione di trasformarlo in un progetto lavorativo. Mi interessava la parte divulgativa e lo portavo avanti in parallelo con il lavoro che avevo nella moda. Anche se ammetto che era quello che mi piaceva davvero e lo portavo avanti con piacere. Ho capito che poteva diventare un lavoro quando hanno iniziato a invitarmi agli eventi e a darmi la possibilità di parlare proprio dei temi che affronto con “Cara, sei maschilista!”. Ci sono influencer con quarantamila followers che fanno pubblicità e ci guadagnano, io ho deciso di non fare pubblicità e di specializzarmi in queste tematiche, cioè in studi di genere. Ho studiato all’Università Bicocca di Milano al fine di poter fare formazione nelle aziende. Quindi, in parallelo a “Cara, sei maschilista!”, ho costruito la mia figura professionale come consulente di Diversity & Inclusion.

 

Dal punto di vista economico come hai fatto a rendere sostenibile il tuo progetto?

Il progetto è di attivismo digitale e non c’è una sostenibilità economica, ma per una scelta mia, perché io vorrei che il progetto rimanesse indipendente e libero. In parallelo io faccio il lavoro di content creator e scrivo i podcast per altri canali. Oggi, per esempio, lavoro con Alfemminile.com, dove conduco il podcast FEM Talk e scrivo per loro. Inoltre, produco contenuti per organizzazioni non governative, mi occupo della strategia e della consulenza in merito a contenuti specifici, come, per esempio, gli stereotipi di genere. Ho anche lavorato insieme all’Associazione Nazionale Alpini, occupandomi della redazione di tutto il manifesto contro le molestie, in quanto consulente.

 

Quali sono le difficoltà più grandi che incontri lavorando con le aziende, come consulente di D&I?

Le aziende italiane stanno iniziando ad avere un po’ più di attenzione verso queste tematiche. Quando mi chiamano ho a che fare con persone che hanno già la volontà di portare questo contenuto al loro interno. La sfida inizia quando si arriva a parlare con il team. Qui ritorno alla questione del linguaggio accessibile che, secondo me, è molto importante. La difficoltà è proprio il riuscire a trasmettere questi valori e queste informazioni in un modo che non sembri loro una lezione arrivata dall’alto.

Anche in questo caso, è fondamentale utilizzare dei linguaggi con cui le persone si possono identificare e che utilizzano nella vita di tutti i giorni.

Forse questo è uno dei problemi che si incontrano nel parlare di femminismo, perché sembra che sia qualcosa molto lontano dalla vita delle persone. Magari all’inizio non tutte le persone sono propense ad ascoltarti, ma poi fai vedere loro un film o ti confronti su una notizia di attualità e i nodi cominciano a sciogliersi.

Effettivamente è questo esercizio di riflessione che fa sì che le persone inizino poi a modificare il proprio comportamento e il proprio pensiero.

Di solito mi contattano aziende grandi, quindi le multinazionali, che sono quelle che ad oggi riescono ad avere un budget da dedicare e spesso hanno più sensibilità per queste tematiche. Penso che in Italia si faccia ancora fatica, nonostante ci sia la certificazione di genere, che sicuramente darà una bella spinta a questo tipo di attività.

 

Come vedi il futuro del mondo della D&I in Italia?

Le nuove generazioni non accettano più di lavorare per aziende che non prendono in considerazione i temi relativi all’inclusione. Credo che le cose stiano cambiando un po’ lentamente, ma io vedo tante opportunità.

Dal punto di vista dell’educazione e della formazione, il settore della diversità, come anche quello della sostenibilità in Italia hanno da poco corsi di laurea specifici, quindi ci vorrà un po’ di tempo per vedere sempre più figure specializzate.

 

Qual è la tua formazione? Pensi che per le aziende italiane sia più facile capire un approccio basato sulla persona o sulla performance?

Ho fatto un corso su genere, politica e istituzioni alla Bicocca di Milano. Sono comunque tanti anni che studio le tematiche relative alla disparità di genere come autodidatta. Al momento il mio focus principale è la parte relativa alla cultura, più che al mondo corporate, di cui ho fatto parte per tanti anni.

Se pensiamo all’approccio delle aziende, invece, siamo stati sempre direzionati dalle scienze esatte, dalla performance come misuratore di successo. Invece, le scienze umane sono qua proprio per dimostrarci che serve anche guardare le cose da un punto di vista qualitativo, non solo quantitativo. Io solitamente quello che faccio alla fine dei miei workshop consiste nell’invitare i partecipanti a compilare un modulo anonimo di valutazione del percorso e lì escono fuori tante cose interessanti, che ovviamente poi condivido con le aziende, attraverso un report.

Una domanda che faccio sempre è: “Cosa ti porterai in azienda da questa esperienza?” Esce sempre fuori la questione della rivalità femminile, per esempio. Poi, però, vedi che le persone alla fine del percorso si impegnano a essere propositive e cercano di cambiare in meglio le proprie tendenze e abbandonare certi atteggiamenti limitanti.

A lungo termine sono convinta che l’azienda vedrà i risultati di questo lavoro, a partire dalla performance del dipendente. La parte difficile viene quando queste persone, che mi hanno contattata, devono presentare i risultati al board. Anche in questo caso, mi sento di dire che la situazione sta migliorando, si sta capendo l’importanza della salute mentale, del benessere dei dipendenti e della creazione di ambienti di lavoro inclusivi, sicuri. Volendo guardare ai numeri, vediamo che le persone che hanno avuto un burn out nell’ultimo anno sono numerosissime, per questo c’è bisogno di questo tipo di impegno da parte dell’azienda.

 

Cosa c’è nel tuo futuro lavorativo?

Trovare delle partnership per fare più lavoro di formazione ai progetti nelle aziende e nelle organizzazioni è uno dei miei obiettivi, in questo momento. Lavoro anche con alcune Onlus e a ottobre parteciperò ad un progetto che si chiama The Break, che è sponsorizzato dall’Unione Europea, dedicato a donne imprenditrici e libere professioniste che hanno dei progetti di impatto sociale positivo. Quindi, sarò un mese in Spagna, dove incontrerò donne imprenditrici da tutto il mondo, residenti in Europa. Ci stiamo già conoscendo e ci troveremo in diverse città della Spagna per sviluppare i nostri progetti e crearne di nuovi, che abbiano un impatto sociale positivo in termini di innovazione, inclusione, diversity e sostenibilità.

Aprono due sezioni all’anno e in quattromila abbiamo mandato l’application. Ci dividono in diversi gruppi e passeremo un mese di full immersion. Il percorso di d’incontri con la community on line è già iniziato ed è molto interessante; quindi, da lì spero di portare nuovi progetti. Sono sicura che sarà così perché trovo stimolante ascoltare i progetti delle altre persone e aiutarci tra di noi, laddove una non arriva ci arriva l’altra.

Sto pensando anche al Portogallo, dato che sono brasiliana sarei facilitata con la lingua portoghese. Sto parlando con case editrici e con persone che fanno lo stesso lavoro che faccio io qua in Portogallo per capire come è il mercato. Però, credo che l’opportunità di The Break mi farà vedere le cose in un altro modo, dato che mi hanno già chiesto del progetto e se ho intenzione di internazionalizzarlo.