Lavoro, ripresa economica e prospettive future per gli smart workers: intervista all’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, oggi presidente dell’associazione Lavoro&Welfare
Crisi economica post emergenza Covid-19, legge di Bilancio, prospettive ed incognite dello smart working e tutele per i lavoratori agili: di questo ha parlato Dealogando con Cesare Damiano, già ministro del Lavoro e della Previdenza del secondo governo Prodi, deputato nelle file del Pd fino al 2018 e presidente della Commissione Lavoro dal 2013 al 2018. Oggi Damiano è presidente dell’associazione Lavoro&Welfare e del Centro Studi Mercato del Lavoro e Contrattazione e svolge attività di ricerca in materia di sicurezza, diritto del lavoro e politiche dell’occupazione. Politiche di cui c’è un urgente bisogno oggi più di ieri, insieme a delle nuove regole che inquadrino in maniera più netta e definita la normativa relativa allo smart working, insieme ai nuovi diritti e doveri dei lavoratori i cui datori – imprese o amministrazioni pubbliche – oggi chiedono di essere sempre più “smart” e sempre più “digital”.
Per quanto riguarda il lavoro, quali sono gli scenari che intravede per il futuro e per il post emergenza Covid? La pandemia ha generato una nuova crisi economica, ma per alcuni settori è stata e sarà anche un’occasione di crescita.
La pandemia ha avuto un effetto shock sull’economia, sulla produzione, sull’occupazione e anche sulle relazioni sociali. La percezione che abbiamo tutti, oggi, è che ci è stata impressa una potente accelerazione al cambiamento, dato che in pochi mesi abbiamo subito alcune importanti trasformazioni, soprattutto relativamente al mondo del lavoro, per le quali in condizioni normali ci sarebbero voluti anni. La questione chiave ora è come governare questo “tsunami” che ci ha travolto e come renderlo un cambiamento positivo della situazione economica e sociale.
L’emergenza Covid ormai occupa tutto lo spazio della comunicazione e dell’interesse della società e ci fa mettere in secondo piano altre emergenze, come il cambiamento climatico e l’ulteriore crescita delle diseguaglianze, che questa situazione ha fatto emergere ancora di più. Parlando di macro-scenari è evidente che per la nuova fase è necessario un ciclo keynesiano di sviluppo, cioè una potente iniezione di investimenti e risorse nell’economia che vadano a stimolare la crescita e l’occupazione.
Cosa raccomanda al governo in vista della nuova legge di Bilancio e per quanto riguarda la gestione del Recovery Fund?
Il suggerimento è di non abbandonare di botto, in modo traumatico, il percorso delle tutele, come la cassa integrazione Covid-19, i diversi bonus di sostegno a lavoratori e famiglie e le risorse a fondo perduto a vantaggio delle imprese in difficoltà, soprattutto le piccole e le micro. È necessario uscire gradualmente dall’emergenza volgendo lo sguardo agli investimenti, ma tenendo contemporaneamente in equilibrio tutele e investimenti. Alcuni, invece, vorrebbero cancellare la tutela per dirottare tutto sugli investimenti: lo trovo pericoloso perché, quando verranno meno la cassa integrazione, i bonus e lo stop ai licenziamenti, corriamo il rischio di avere un grande numero di disoccupati.
Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha detto che grazie alla nuova Manovra e ai fondi della Recovery and Resilience Facility la crescita economica si attesterà al 6% e che nel 2022 verrà recuperato il livello del Pil registrato nell’anno precedente la pandemia. Lei crede a queste previsioni?
Quello che è certo, al netto delle previsioni che possono essere più o meno giuste, è che quando un’economia ha un arretramento violento poi c’è sempre un rimbalzo. Tale rimbalzo, però, non è omogeneo ma differenziato, come abbiamo già potuto vedere: crescono alcuni settori mentre altri continuano ad arretrare. Penso, ad esempio, al settore più danneggiato da questa crisi come il turismo. È evidente che per manovrare le risorse bisogna agire come quando si guida un’automobile, dosando bene acceleratore e freno.
Bisogna sostenere i settori in difficoltà, tutelarli e investire anche lì dove ci sono già buoni segnali di ripresa. Mi auguro che si torni, per quanto riguarda il Pil, ai livelli del 2019 come dice Gualtieri nell’arco dei prossimi anni, ma è molto difficile stabilirlo, perché dipende da una serie di fattori non solo nazionali. Penso anche al rapporto fra Europa e Stati Uniti: la Fed ha messo fine al dogma del tetto dell’inflazione al 2% ed erogherà prestiti a tasso zero per i prossimi anni; quindi, se l’Europa non si adegua sarà difficile esportare negli Usa.
È stato annunciato anche un ddl relativo allo smart working. Di quali strumenti e tutele hanno bisogno lavoratori e aziende per la gestione del “lavoro agile”?
Quello che abbiamo sperimentato durante il lockdown non è il lavoro agile vero e proprio, ma si tratta, piuttosto, di una modalità di lavoro da remoto obbligata. Essendo stato relatore di questo tema alla Camera durante la precedente legislatura, ci tengo a precisare che lo smart working è lavoro dipendente a tutti gli effetti e le sue condizioni devono perciò essere equiparate a quelle dei lavoratori che svolgono la loro attività in azienda. Non vorrei che si arrivasse ad una situazione nella quale il lavoro agile diventa una nuova forma di flessibilità a basso prezzo. Il lavoratore non può ritrovarsi ad essere trattato come una sorta di rider che anziché pedalare digita sulla tastiera del suo pc.
In futuro, come peraltro è stato già annunciato da alcune grandi imprese quali Eni, Enel e Leonardo, una parte della forza lavoro verrà inserita strutturalmente in una modalità di organizzazione del lavoro smart che preveda, contemporaneamente, presenza e distanza. A mio avviso c’è la necessità di una regolamentazione sindacale che affronti determinate normative, come connessione e disconnessione o come il cambiamento della valutazione del lavoro da ora lavorata in obiettivo raggiunto. C’è bisogno di una nuova visione anche relativamente ai premi di produttività, dato che in smart working spariscono gli straordinari e, in molti casi, se non i più gravi, anche la malattia. Per le imprese crescono la produttività e il risparmio a livello sia di spazi che di consumi, ma si tratta di una rivoluzione che va regolata contrattualmente in modo più puntuale.
Nei ddl collegati alla manovra c’è il salario minimo, la riforma della rappresentanza delle parti sociali nella contrattazione collettiva e quella degli ammortizzatori sociali. Per quanto riguarda il salario minimo, il nodo ancora da sciogliere è sul meccanismo da prendere come riferimento per definirlo. Lei che ne pensa?
Penso che il salario minimo debba essere adottato per legge nei Paesi dove non esiste la contrattazione, e non è il caso dell’Italia. Se per salario minimo si intende recepire i minimi contrattuali stipulati dai contratti cosiddetti leader, allora sono d’accordo, ma ciò significa che si tratta di salari minimi che devono essere differenziati a seconda delle categorie di appartenenza.
Un salario minimo definito con non so quali criteri e valido a livello universale mi sembra poco idoneo, mentre ha senso definirlo per legge per quanto riguarda quei settori che non hanno il contratto di lavoro di riferimento, ma che sia valido solo per il tempo necessario alla stipula delle condizioni contrattuali. La priorità, a mio avviso, deve essere data agli standard contrattuali da recepire, eventualmente, attraverso una legge.