Smart e remote working sono sempre più diffusi, ma il mondo del lavoro, agile e non, va ripensato all’insegna dell’innovazione. I dati mostrano tutti i vantaggi delle modalità ibride, eppure ci sono ancora tante criticità: ne abbiamo parlato con Fiorella Crespi dell’Osservatorio del Politecnico
Smart e remote working. Il lavoro non è agile per nulla. In Italia le ultimissime tendenze 2022-2023 dicono che i lavoratori da remoto aumentano, ma i bonus e i rimborsi per la loro connettività e le postazioni domestiche sono ridotti al lumicino. Al contempo, secondo le stime, le nuove modalità ibride fanno crescere il rendimento individuale del 15% e offrono un risparmio netto di circa 600 euro l’anno a chi ne fruisce. Inoltre il miglioramento ambientale è evidente.
“È stata fatta molta innovazione, ma non è sufficiente. E la logica del presenzialismo è ancora radicata. C’è troppo poca consapevolezza dei benefici. Occorre un ripensamento del modello di organizzazione del lavoro”, ci ha detto Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano. L’abbiamo intervistata per raccontare l’evoluzione dello smart working in questi anni.
Quali sono gli ultimi dati aggiornati sul tema smart e remote working? Quanti
italiani oggi lavorano in queste modalità?
Secondo le stime dell’Osservatorio Smart Working, nel 2022 i lavoratori da remoto sono circa 3,6 milioni. Di questi, circa la metà sono personale delle grandi imprese private.
In questi anni il numero di lavoratori da remoto è aumentato esponenzialmente: se nel 2019 i lavoratori da remoto erano 570 mila, l’arrivo della pandemia ha portato a un loro aumento senza precedenti, raggiungendo picchi di 6,58 milioni nel 2020 e 5,37 nel 2021.
Nel 2022 il lavoro da remoto continua quindi a essere utilizzato in modo consistente, sebbene in misura minore rispetto agli anni immediatamente successivi allo scoppio della pandemia, ma siamo ben lontani a un ritorno ai numeri pre-covid.
In generale, le persone sono state messe in condizione di svolgere bene il lavoro a distanza? Le aziende hanno investito in questa modalità? O, al contrario, hanno investito per rendere gli uffici più “attraenti” e invogliare i dipendenti a restarci?
Occorre differenziare il lavoro da remoto dallo Smart Working. Dallo scoppio della pandemia l’applicazione emergenziale delle nuove modalità di lavoro si è concretizzata con l’introduzione del solo lavoro da remoto. Ma sviluppare iniziative di Smart Working significa creare un modello di organizzazione del lavoro basato su flessibilità e autonomia delle persone a fronte di una loro responsabilizzazione sui risultati da raggiungere. Le forme di flessibilità che caratterizzano questo modello non si riducono al solo lavoro da remoto, ma comprendono anche flessibilità oraria e adozione di una logica di lavoro per obiettivi.
Molte organizzazioni hanno investito nella realizzazione di modelli di Smart Working completi, ossia che agiscono su tutte le leve, dunque su una revisione complessiva del modello organizzativo basata su lavoro per obiettivi, flessibilità oraria, spazi di lavoro e digitalizzazione. Inoltre la maggior parte delle iniziative presenti nelle organizzazioni, già attive negli scorsi anni, nel 2022 sono state oggetto di un ripensamento o consolidamento rispetto alla situazione emergenziale. Ad esempio, le organizzazioni hanno introdotto policy e linee guida, hanno fatto degli investimenti in tecnologie e a livello degli spazi della sede.
Sicuramente molto è stato fatto anche in termini di revisione degli spazi di lavoro: l’esperienza forzata del lavoro lontano dall’ufficio e la volontà di favorire il rientro, anche se parziale, delle persone nelle sedi ha accresciuto nelle organizzazioni la consapevolezza di dover realizzare azioni sugli spazi di lavoro per creare ambienti che motivino e diano un senso alla presenza in ufficio, supportando in modo efficace le attività che più si prestano a essere svolte in questo contesto. Il 52% delle grandi imprese ha già effettuato degli interventi di modifica degli ambienti o lo sta facendo in questi mesi; lo stesso vale per il 30% delle PMI e il 25% delle PA. In prospettiva futura, tali iniziative sono previste o in fase di valutazione nel 26% delle grandi imprese, nel 21% delle PA e nel 14% delle PMI.
Un lavoro agile da casa ben fatto dovrebbe prevedere accordi tra le parti, contributi per le spese di connessione, dispositivi informatici e attrezzature ergonomiche messi a disposizione dall’azienda, obiettivi predefiniti su cui lavorare, formazione specifica per i dipendenti, autonomia nella gestione della disconnessione e possibilità di decidere sulla presenza in ufficio. Quanto sono diffuse queste pratiche?
Molte organizzazioni hanno già provveduto a formalizzare i modelli di Smart Working avviati in emergenza. La fornitura di attrezzature informatiche (come pc e smartphone) per il lavoro in mobilità è in genere molto diffusa, in particolare nelle grandi imprese.
Per quanto riguarda bonus e contributi per le spese di connessione e la predisposizione di una postazione ergonomica, queste iniziative sono ancora molto limitate: solo il 13% delle aziende del campione della nostra ricerca prevede dei bonus o rimborsi (che non siano i buoni pasto) per i lavoratori da remoto.
Quando i modelli di Smart Working agiscono su tutte le leve, le organizzazioni mettono in campo diverse azioni in termini di formazione specifica per manager e collaboratori. Ad esempio, formazione per favorire un utilizzo più consapevole degli strumenti digitali e iniziative per il benessere dei dipendenti, sia fisico che psicologico, o formazione sulla capacità di dare obiettivi e verificarne il raggiungimento. Sempre più diffusa è inoltre la pratica di diffondere un “Galateo dello Smart Working”, che contiene linee guida sul tema della disconnessione (59% del campione delle grandi imprese).
Quanta innovazione si è raggiunta, davvero, nel mondo del lavoro negli ultimi due anni?
La diffusione delle iniziative di Smart Working negli ultimi due anni ha portato numerose organizzazioni e persone a confrontarsi con un modo di lavorare radicalmente diverso rispetto a quello adottato prima della pandemia, e molti hanno scelto di non tornare indietro. Certamente è stata fatta molta innovazione, ma non è sufficiente: ora occorre mettere a terra l’eredità dell’emergenza e strutturare nuovi modelli di lavoro che possano rispondere alle esigenze di persone e organizzazione, e che si adattino a un clima ancora di grande incertezza (guerra, inflazione, …).
Il lavoro a distanza aumenta l’isolamento, lo stress, le difficoltà di conciliare vita e lavoro?
Non bisogna generalizzare, ma anzi occorre fare delle distinzioni. In base alla modalità di lavoro adottata. Nell’ambito delle attività di ricerca dell’Osservatorio abbiamo identificato tre profili di lavoratori: on-site worker, che lavorano stabilmente presso la sede di lavoro; lavoratori remote non smart, che hanno la possibilità di lavorare da remoto ma non godono di altre forme di flessibilità; e smart worker, che hanno flessibilità sia di luogo, sia oraria e lavorano secondo una logica orientata al raggiungimento degli obiettivi. I nostri dati ci hanno mostrato che in termini di benessere psicologico e relazionale e di engagement (ovvero il legame profondo con la propria organizzazione) gli smart worker stanno meglio sia rispetto agli on-site worker sia ai lavoratori remote non smart. In aggiunta, questi ultimi mostrano livelli di benessere più bassi non solo rispetto agli smart worker, ma anche rispetto a chi non ha la possibilità di lavorare da remoto.
Il confronto tra i diversi profili fa emergere dunque che sono i lavoratori remote, non smart, ad avere il minor engagement e il minor benessere. Il solo lavoro da remoto, se mancante di altre caratteristiche “smart” e non inserito in una cornice più ampia di flessibilità e revisione dei processi, non porta benefici né a livello personale né organizzativo, ma può invece condurre a esiti più negativi persino rispetto a chi non ha alcuna forma di flessibilità come i lavoratori on-site.
In tempi di caro energia e inflazione, quanto pesa lo smart working sulle bollette? Su chi ricadono questi costi?
La possibilità di lavorare in modo flessibile, in termini di luogo e tempo, ha certamente delle implicazioni dal punto di vista economico.
Adottando la prospettiva del lavoratore, bisogna considerare che nel conto complessivo influiscono diverse variabili, alcune che dipendono da scelte fatte dall’azienda, altre dalle caratteristiche e stili di vita delle persone. Tra le voci principali che contribuiscono a generare un risparmio vi sono sicuramente gli spostamenti evitati, mentre a fare da contraltare a tali spese vi sono quelle per i consumi domestici (riscaldamento, raffreddamento e ricarica dei device elettronici) e la connettività.
Come Osservatorio abbiamo provato a fare delle stime a livello medio nell’ipotesi di svolgere le attività da remoto per 2 giorni a settimana. Questo porta a una riduzione dei costi di commuting, mediamente pari a circa mille euro l’anno a persona, e tale risparmio è parzialmente compensato dall’incremento dei costi associati ai consumi domestici stimabili in una media di circa 400 euro l’anno a persona. Nel complesso, a livello medio, il lavoro da remoto porta un risparmio netto di circa 600 euro l’anno per ogni lavoratore da remoto.
Perché è ancora forte in Italia la cultura organizzativa che privilegia il controllo della presenza al lavoro?
In Italia la logica del presenzialismo è ancora radicata nel settore privato, in particolare nelle PMI, che costituiscono la maggioranza delle imprese nel nostro Paese. Nelle PA le iniziative hanno avuto freni e vincoli per le disposizioni governative. Tra i principali ostacoli all’introduzione delle iniziative di Smart Working, in entrambi i settori, sia pubblico che privato, vengono indicate soprattutto le barriere di carattere culturale, come la resistenza da parte del vertice e l’assenza di una cultura basata sul raggiungimento degli obiettivi.
Vengono attuate anche pratiche dirette di controllo degli smart workers con software ad hoc?
Non abbiamo dati a riguardo ma sappiamo che non è una pratica così diffusa.
Come mai la “cultura del controllo” è più forte anche del risparmio che il lavoro agile assicura sia ai dipendenti sia ai datori?
Lo Smart Working porta a notevoli vantaggi alle aziende, in termini di miglioramento della produttività, riduzione dell’assenteismo e riduzione dei costi per gli spazi fisici. Ma i vantaggi derivanti dallo Smart Working riguardano anche la soddisfazione del lavoratore e il miglioramento della società.
C’è ancora troppo poca consapevolezza dei benefici in termini di numeri. Come Osservatorio abbiamo stimato l’incremento di produttività per un lavoratore derivante dall’adozione di un modello “completo” di Smart Working nell’ordine del 15%.
Il vero problema era il tema del controllo “visivo”, legato alla logica del presenzialismo, mentre occorre muoversi verso il controllo “del risultato”. Il “vero” Smart Working ha alla base un lavoro basato sul raggiungimento di obiettivi e risultati piuttosto che sul tempo lavorato, dunque è su quello che occorre responsabilizzare capi e collaboratori. Per farlo, occorre fare formazione e supportare i manager (in particolare il middle management) nella definizione degli obiettivi e monitorarne il risultato anche nel breve-medio periodo.
Quali sono gli ultimi dati sugli “effetti” del lavoro agile? Confermano i benefici per l’ambiente e i “danni” ai consumi? Confesercenti dice che, con 5 milioni di smart workers, i consumi sono calati di 9,8 miliardi di euro, con 20mila attività e 93mila posti di lavoro a rischio.
Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, lo Smart Working aiuta a diminuire l’impatto ecologico in diversi modi. In primo luogo, un utilizzo intelligente del lavoro a distanza permette di ridurre significativamente gli spostamenti quotidiani verso la sede aziendale. Questo si traduce in effetti diretti e indiretti: i primi riguardano la riduzione dei consumi di combustibili fossili e delle emissioni, con un conseguente abbassamento del livello di inquinamento atmosferico. I secondi riguardano gli impatti su città e territori: la diminuzione degli spostamenti casa-ufficio può rendere più efficiente l’intera gestione del sistema dei trasporti, grazie alla diminuzione della congestione dovuta al traffico urbano. I dati a riguardo raccolti dall’Osservatorio Smart Working nel 2021 parlano chiaro: solo considerando l’impatto legato alla riduzione degli spostamenti, è stato stimato un potenziale risparmio in termini di CO2 prodotta pari a 1,8 milioni di tonnellate all’anno, che corrisponde all’anidride carbonica assorbita da 51 milioni di alberi.
A livello economico, non riteniamo che i danni ai consumi siano imputabili allo Smart Working.
Trova conferme il dato (Flexa Careers) secondo cui nell’ultimo anno il numero di compagnie che ha pubblicato offerte di lavoro da remoto si è ridotto di un terzo?
Non abbiamo dati interni all’Osservatorio a riguardo. Se si intendono annunci di lavoro in logica full remote, è possibile che alcune organizzazioni abbiano introdotto posizioni lavorative in questa ottica durante la pandemia, e che ora si stiano orientando prevalentemente su modelli ibridi, che alternano il lavoro in sede e da remoto.
Il lavoro full remote porta con sé rischio di isolamento, perdita di engagement e allontanamento dai valori aziendali. Per alcuni profili lavorativi, ad esempio i profili molto tecnici che lavorano in ambito IT, può essere un’importante leva di attrazione per poter attingere anche a competenze che si trovano molto lontani dalla sede dell’azienda. In generale però, un modello di Smart Working efficace si basa su un equilibrio tra presenza fisica e virtuale.
Quali sono le prospettive dello smart working? Quanta gente continuerà a svolgere così le proprie attività?
I dati previsionali per il prossimo anno ci mostrano un leggero incremento della platea degli smartworkers, derivante dal consolidamento dei lavoratori da remoto nelle grandi imprese e a un’ipotesi di incremento dei lavoratori pubblici. Secondo i nostri dati, lo Smart Working continuerà a essere presente nel 91% delle grandi imprese, nel 27% delle PMI e nel 64% delle PA.
Tra le tendenze che stiamo osservando c’è l’estensione dello Smart Working a profili di lavoro tradizionalmente esclusi, nei riguardi dei quali verrà quindi avviata una prima sperimentazione. Inoltre vi sono diversi trend relativi alle forme di flessibilità che stiamo osservando, come le iniziative italiane ed estere di settimana corta o il fenomeno del nomadismo digitale.
Cosa manca in Italia per realizzare “il vero smart working”? Che si può fare per andare in quella direzione?
Come emerso dall’ultima ricerca, passata l’emergenza sanitaria, l’esperienza vissuta pone ora le organizzazioni di fronte a un bivio. Da un lato, l’interpretazione dello Smart Working come mero lavoro da remoto, sicuramente utile per gestire le emergenze e supportare il work-life balance delle persone nel breve termine, nel lungo periodo può addirittura avere impatti negativi su engagement e benessere dei lavoratori.
Dall’altro lato si presenta invece l’opportunità di un ripensamento del modello di organizzazione del lavoro, un cambiamento più profondo incentrato sul concetto allargato di flessibilità, sul lavoro per obiettivi e sulla digitalizzazione intelligente delle attività, che può allargare il set di benefici sia per le persone, sia per le organizzazioni.
Leggi anche >> Il ruolo del Chief Purpose Officer nelle aziende del futuro