«Usare i pronomi al maschile e al femminile, specificare che l’azienda è disponibile, come previsto dalla legge, a fornire gli accomodamenti necessari a persone con caratteristiche, abilità fisiche e stili di pensiero diversi, sono tutti esempi utili alle aziende per attrarre nuovi talenti con disabilità» Irene Sarpato è DEI Expert e Advisor della Fondazione Billion Strong

Le persone con qualche forma di disabilità nell’Unione europea sono circa 87 milioni e dal 2010 al 2020 il divario è aumentato in alcuni stati membri, tra cui Cipro (+5 punti) e Belgio (+4). Paesi come il Portogallo o la stessa Italia, in forma più ridotta, invece, hanno registrato trend positivi. Nonostante questo, la strada da fare per raggiungere l’equità è ancora lunga.

Secondo quanto riportato dall’Istat nel sito Disabilità in cifre, nel 2021 in Italia c’erano 4,5 milioni di persone con disabilità, di cui il 35% con un’occupazione, mentre il rapporto annuale sul mercato del lavoro del Portale Inps mostra che nel 2020 il tasso di disoccupazione delle persone con disabilità era pari al 14,9%. Con Irene Sarpato, DEI Expert e Advisor della Fondazione Billion Strong, non solo abbiamo dato voce alle difficoltà che incontrano i gruppi sottorappresentati, ma abbiamo anche individuato quali azioni virtuose le aziende e le persone possono compiere in proposito.

 

Cosa significa per te il privilegio nella vita di tutti i giorni e nel lavoro?

Negli anni ho capito che la dimensione del privilegio è una delle più difficili da considerare, perché in determinate situazioni tutti possiamo avere un vantaggio. Spesso si tende a negarlo, perché a nessuno piace sentirsi privilegiato. Pensiamo che quello che abbiamo ce lo siamo meritato, mentre il privilegio è qualcosa che tu hai per le tue caratteristiche intrinseche in un dato ambiente, e che non ti sei guadagnato con il tuo lavoro e nemmeno con il tuo impegno. Non è frutto delle tue decisioni e delle tue azioni, è una condizione di partenza e non tutti la sperimentano allo stesso modo.

Per esempio, io mi rendo conto che sono privilegiata perché sono una donna con un passaporto europeo, con una tonalità di pelle chiara e nel contesto in cui vivo ho potuto studiare, prendere la patente, lavorare e avere una vita indipendente. Altri aspetti della mia identità, invece, mi portano a identificarmi con gruppi sottorappresentati.

Il fatto di essere autistica, per esempio, è una mia caratteristica che mi può porre in condizioni di svantaggio. Prendere consapevolezza del tipo di privilegio che abbiamo ci aiuta a fare un passo avanti, quello che ci fa chiedere a noi stessi: Come posso usare la mia condizione di privilegio per supportare persone che sperimentano quotidianamente barriere sociali e culturali?”

L’obiettivo deve essere fare in modo che abbiano opportunità eque di raggiungere i loro scopi, di realizzarsi come persone, di essere riconosciute, rispettate e apprezzate. Questo è un bel motore che può spingere le persone a diventare alleate di chi appartiene a gruppi sottorappresentati. Nel lavoro un esempio consiste nel mettere a disposizione la nostra esperienza, il nostro network e quello che abbiamo imparato per fare quello che si chiama empower e trasmetterlo alle altre persone.

 

Nel 2020 hai fondato l’Employee Resources Group nell’azienda in cui lavoravi, per creare consapevolezza sulle disabilità visibili e invisibili al lavoro.

Quando chiedo alle persone cosa viene loro in mente pensando alla disabilità, spesso mi rispondono con l’icona del parcheggio in carrozzina. Ha senso perché quella è anche un’icona adottata a livello internazionale da molti anni, anzi adesso la stanno aggiornando in una versione un po’ più dinamica, ma ci sono molte altre disabilità che non si conoscono abbastanza.

Ad esempio, una persona in sedia a rotelle di solito viene definita dalla nostra cultura come una persona che è costretta a starci e per forza infelice, invece con questo progetto si vuole andare oltre e togliere quel velo di patetico e di drammatico quando si parla di disabilità.

Sappiamo che su circa un miliardo e trecentomila persone nel mondo che vivono con una forma di disabilità, ovvero il 15% della popolazione mondiale, l’80% di queste è invisibile e ce lo dimentichiamo spesso. Se una persona è sorda e non ha l’apparecchio acustico, per esempio, tu non lo puoi vedere. Oppure, come nel mio caso, se una persona è dislessica tu non lo vedi ma ti senti in diritto di farle delle battutine. Poi ci sono tutta una serie di micro-aggressioni, quella che io subisco più di frequente riguarda il mio essere autistica, cioè mi vengono fatti i complimenti perché non lo sembro.

 

Quali azioni ritieni necessarie intraprendere per creare consapevolezza e fare informazione sui diversi tipi di disabilità al lavoro?

Quando gruppi di dipendenti si organizzano volontariamente e si ritrovano sulla base di alcune affinità, possono dare vita a progetti molto utili. Nell’azienda dove ero prima ho fondato un ERG dedicato alle persone con disabilità che mancava. Consiglio a tutti e tutte di far parte di uno di questi gruppi, perché nelle aziende italiane, come in quelle straniere, le persone con disabilità, soprattutto con una disabilità invisibile o con una condizione di salute mentale particolare, non sempre si sentono al sicuro nel condividere la loro condizione.

Il livello di disclosure in ambito lavorativo delle persone con disabilità è molto basso, perché hanno proprio paura di essere penalizzate, emarginate e guardate con un occhio diverso, oltre a non venire considerate per opportunità di carriera. Le persone con disabilità hanno iniziato più tardi questo percorso di visibilità, di self advocacy e di orgoglio, a differenza della comunità lgbtqia+ che dell’orgoglio ha fatto il suo motore.

 

Per quanto riguarda i talenti con disabilità, qual è la situazione in Italia?

È importante essere più aperti ai nuovi talenti con disabilità, perché ci sono ancora delle barriere. Le condizioni inclusive devono esserci dal momento in cui si scrive un annuncio di lavoro. Usare i pronomi al maschile e al femminile, specificare che l’azienda è disponibile, come previsto dalla legge, a fornire gli accomodamenti necessari a persone con caratteristiche, abilità fisiche e stili di pensiero diversi.

E ancora, ci sono test d’ingresso che misurano il tempo di risposta, una persona dislessica ci metterà più tempo con lo screen reader. Come Fondazione Billion Strong posso dire che le persone con disabilità e che appartengono a gruppi sottorappresentati non chiedono un trattamento speciale, chiedono un trattamento equo.

E allora qui è importante capire in cosa consiste l’equità e in cosa differisce dall’uguaglianza. L’uguaglianza è dare a ognuno la stessa cosa, l’equità, invece, consiste innanzitutto nel capire che siamo tutti diversi e tutte diverse e quindi abbiamo anche bisogni diversi. In secondo luogo, significa essere consapevoli che non partiamo dalle stesse condizioni di partenza e bisogna fare uno sforzo per ridurre gli svantaggi di partenza che alcuni gruppi di persone sperimentano.

Quando noi parliamo di accomodamenti ragionevoli, di quote di persone con disabilità da assumere o di quote di genere, non stiamo avvantaggiando alcune categorie di persone, stiamo cercando di ridurre gli svantaggi già esistenti. E senza queste misure non avremmo visto anche quel piccolo progresso che stiamo vedendo negli ultimi anni.

 

Ci racconti dell’iniziativa #IamRemarkable?

#IamRemarkable è nata dal network di donne di Google e inizialmente si rivolgeva alle sue dipendenti, insegnando loro a fare autopromozione, per poi rendersi conto che un po’ tutte le persone che appartengono a gruppi sottorappresentati hanno difficoltà a fare autopromozione e incontrano barriere simili. L’abilità di parlare bene di sé e di far parlare i propri risultati nel modo corretto può essere imparata. Durante il workshop ho incontrato come facilitatrice più di cento persone, che ho visto scoprirsi con meraviglia.

Ci sono persone che fanno veramente fatica a trovare qualcosa da dire, perché tutto quello che facciamo spesso lo diamo per scontato e ci sembra ordinario o non degno di attenzione. Invece è importante cominciare a fare caso al fatto che tutti e tutte diamo un contributo di valore quotidianamente alle nostre famiglie, alle nostre comunità, al luogo in cui lavoriamo e creiamo valore in un modo che è solo nostro, ma non sempre ne siamo consapevoli.

 

Qual è il tuo contributo per la Billion Strong Foundation?

La BSF è un’organizzazione no-profit per la tutela dell’identità a livello globale che si propone di unire, elevare e potenziare la comunità internazionale delle persone con disabilità. Il fare parte di questa fondazione mi permette di gestire la narrazione della disabilità, quindi invitare le persone a conoscere il punto di vista dei diretti interessati. Per le aziende è un valore aggiunto perché hai la possibilità di generare valore per tutti e di far capire ai colleghi e alle colleghe che cosa vuol dire vivere con una disabilità anche nell’ambiente di lavoro.

Le persone hanno, così, la possibilità di lanciarsi in conversazioni difficili e fare domande, in modo da uscire dall’alone di silenzio intorno al tema della disabilità, ancora considerata un tabù per certi versi. Spesso si ha paura di dire o fare la cosa sbagliata, allora per non sbagliare non si dice niente e invece bisogna prendersi il rischio e provare. Così, un po’ alla volta si riesce a normalizzare la conversazione e questo contribuisce a rendere l’ambiente sicuro.

 

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