«Ci dimentichiamo l’assunto di base del mercato del lavoro che è: io devo avere delle competenze, dei prodotti e dei servizi da fornire a qualcun altro, che in cambio mi pagherà. Poi che tu abbia delle attitudini particolari conta fino a un certo punto. Puoi avere una vocazione molto forte verso qualcosa, ma non riuscire a guadagnare da essa». Di questo e di come sia difficile muoversi in un mercato del lavoro che non sempre mette al centro le persone, ne abbiamo parlato con Riccardo Germani, psicologo, psicoterapeuta e Career Coach.
Nel 2050 ci saranno otto milioni di persone in meno rispetto a oggi a occupare i posti di lavori (o a crearne di nuovi) e solo nell’ultimo anno sono stati più di 36mila gli espatriati tra i 18 e i 34 anni. A questo si aggiungono i risultati dell’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, secondo il quale per l’80% della popolazione l’Italia è in declino.
È in questo contesto che la ricerca del lavoro diventa essa stessa un lavoro e la salute mentale viene messa al primo posto dalle giovani generazioni. Di quanto sia difficile capire la propria strada e sentirsi appagati durante il proprio percorso di carriera ne abbiamo parlato con Riccardo Germani, psicologo, psicoterapeuta e Career Coach.
Di cosa si occupa un career coach?
La richiesta più frequente riguarda il fare chiarezza. Ragiono insieme a chi si rivolge a me sui loro bisogni, analizziamo insieme la fase della vita in cui si trovano con i rispettivi compiti evolutivi. Poi definiamo una strategia per raggiungere i loro obiettivi. Una volta che abbiamo identificato un ideale di stile di vita, si fa un confronto con la realtà e si cerca di capire quanto sia fattibile. Se hai le competenze, capiamo entro quanto puoi svilupparle, ragioniamo su cosa ti aspetti dal lavoro, se hai altre priorità e di quanti soldi hai bisogno mensilmente per vivere. Alla fine, si sviluppa un modello di business personale.
Quali sono le difficoltà maggiori che hai riscontrato fino ad ora nel tuo lavoro?
Spesso le persone iniziano a fare un lavoro per avere sicurezza; quindi, cercano un buon contratto grazie al quale possano fare un mutuo, comprare casa o avere dei figli. Il rischio di questo atteggiamento è di non riflettere sul lungo termine: se si vuole fare il dipendente o meno, se si vuole vivere in una città o in un’altra. Così all’inizio mi sento appagato perché soddisfo il mio bisogno di sicurezza ed è probabile che per qualche anno mi vada bene. Solo che le mie competenze con il passare del tempo cominciano a declinare perché faccio più o meno sempre le stesse cose, per poi ritrovarmi a 38-40 anni in una fase di stallo. In questa fase non vedo alternative, non so come uscire dalla situazione attuale, non so bene cosa voglio e tantomeno cosa so fare, così sento la necessità di orientarmi.
Siamo cresciuti in una società che mette al centro il lavoro e il resto delle attività girano intorno ad esso. È possibile sradicare questa cultura?
Per un’azienda il fatto che le persone non ragionino è l’ideale. Avere una persona che è ricattabile, che magari non si è costruita un’alternativa, è ottimo perché puoi dettare tutte le tue condizioni. Allo stesso tempo, non voglio far passare il messaggio che la libera professione o l’imprenditoria siano l’ideale, perché non fa per tutti, bisogna trovarcisi bene dentro.
È importante capirlo perché non c’è niente di male nel lavoro da dipendente se la mia priorità è la sicurezza e non il bisogno di varietà o di maggiore guadagno. L’importante è sapere che fa per noi.
Cosa cercano le nuove generazioni nel lavoro rispetto a quelle precedenti?
Ho sentito persone affermare che se un’azienda non offre loro lo smart working sono disposte a chiudere la candidatura perché non vogliono dover stare sempre in ufficio. Poi c’è chi non è disposto a stare sempre a casa. Probabilmente la via di mezzo funziona abbastanza bene per tutti. Molti ingegneri informatici hanno più possibilità di lavorare da casa e lo fanno più volentieri rispetto a chi svolge lavori in cui la parte relazionale è più importante. Mi sembra che per la generazione dei boomer siano importanti l’impegno, il lavoro in presenza e la stabilità, dato che si dirigono verso la pensione. La generazione X, invece, dà importanza alle relazioni nel contesto lavorativo, continuando a puntare sulla carriera. Le indagini sui cui abbiamo più dati riguardano i Millenial e la Gen Z, che preferiscono un ambiente di lavoro sano, flessibile, in cui ci sia lo smart working e in cui venga data rilevanza alla cura della salute mentale, insieme a una buona retribuzione, ovviamente.
Esercitare la libera professione non è semplice, perché?
In Italia non siamo incoraggiati al lavoro. Quando fai un lavoro per cui vieni pagato 1200 euro al mese significa che l’azienda sta pagando il doppio. Quando svolgi la libera professione il problema sono le tasse, anche se ora va meglio con l’aumento del limite massimo di ricavi del forfettario che è salito a 85mila euro, però restano altri costi. Se non hai una formazione su come si avvia un progetto proprio può essere ancora più difficile. Ad esempio, io ho lavorato nel Marketing e nella Comunicazione per circa 5 anni, per poi arrivare gradualmente alla libera professione. Se avessi iniziato subito non avrei potuto permettermi di pagare le spese. Dopo una serie di delusioni dentro l’azienda in cui lavoravo ho capito che non era il mio posto. Preferisco essere libero e autonomo, gestire il mio tempo e scegliere di lavorare da dove voglio. Ho scelto l’insicurezza della libertà.
Secondo un report di Bloomberg il 60% dei dipendenti a livello globale afferma che il proprio datore di lavoro gli ha dato più responsabilità lavorative senza aumento di stipendio. Quali sono le conseguenze di questo atteggiamento?
Il lavoro è produrre qualcosa per generare profitto. Se l’azienda non ha budget o non lo vuole mettere, cercherà di sfruttare le persone che ci lavorano, questo perché ha più potere contrattuale. Lo scopo dell’azienda è fare profitto, non renderti felice. Mi stupisce chi si lamenti di questo. Magari è una visione cinica, ma tu per l’azienda sei un asset, un mezzo di produzione. Quindi devi costare poco, non dare troppi problemi e produrre costantemente e il più possibile. Quindi è chiaro che tutti quegli aspetti come il disagio psicologico o la maternità sono degli ostacoli per chi ti assume. Se ci fosse la possibilità di sostituirti con una macchina l’azienda lo farebbe. Chi fa impresa cerca dei profitti. Invece la nostra visione romanzata vede il datore di lavoro come un genitore buono che si prenderà cura di noi e della nostra crescita. Non è vero e c’è un’altra verità. L’investimento sul benessere psicologico delle persone porta a un ritorno di tre volte superiore rispetto alla spesa iniziale. Questo avviene perché così si riduce lo stress, il turnover e le dimissioni, per esempio. Però, è importante investirci per davvero, non limitarsi a fare un webinar sulla salute mentale. Il punto è che i manager di solito vengono formati in modo analitico e centrato sui dati. L’aspetto psicologico per loro non esiste. Fino a quando lavoreranno gli esseri umani e non l’IA, dovremo investire sulla felicità delle persone.
Cos’è la vocazione? Esiste per davvero? E se si come la si trasforma in lavoro?
Abbiamo una visione romantica e romanzata del lavoro, proprio come l’abbiamo per le relazioni. Ci dimentichiamo l’assunto di base del mercato del lavoro che è: “io devo avere delle competenze, dei prodotti e dei servizi da fornire a qualcun altro, che in cambio mi pagherà.”. Poi che tu abbia delle attitudini particolari conta fino a un certo punto. Puoi avere una vocazione molto forte verso qualcosa ma non riuscire a guadagnare da essa. C’è anche il modello Einstein, per esempio, in cui il lavoro è un mezzo per guadagnarsi da vivere e il resto del tempo lo dedico alla mie passioni. Lui, infatti, lavorava in un ufficio brevetti e il resto del tempo lo dedicava alla ricerca, dalla quale non percepiva soldi. Possiamo avere dei circuiti cerebrali che ci rendono predisposti a qualcosa, che dobbiamo coltivare molto se vogliamo averne padronanza. C’è differenza tra l’essere molto bravi in qualcosa e riuscire a trasformare quella abilità in un lavoro, così come non esiste il multipotenziale.
Perché secondo te non esiste la multipotenzialità?
Penso sia un’invenzione del marketing. Tu puoi avere diverse competenze e interessi, ma poi devi scegliere. Se riesci a metterli tutti insieme e a integrarli e a farci soldi sei stato bravo, ma saranno il 2-3% le persone che riescono a farlo. Siamo tutti multo curiosi, però non tutti sappiano declinare queste curiosità nel modo giusto. Avere molti interessi ci rende solo più confusi. Posso avere una carriera ciclica, ad esempio: fino ad ora mi sono interessato alla psicologia, ma per me è giunto il momento di dedicarmi ad altro perché non ho più motivazione nel proseguire. Per trasformare una passione in un lavoro servono diversi ingredienti, tra cui la motivazione, l’impegno costante e il tempo. Tutti abbiamo interessi diversi, a questo proposito mi viene in mente la teoria delle intelligenze multiple: ci sono persone che sono particolarmente abili nella logica, nella matematica, altre più brave negli sport. Ognuno deve cercare di capire dove è più intelligente e in base a quello capire la professione che è nelle proprie corde. A questo si aggiunge il contesto: ho da capire quanto le mie propensioni e il mio tipo di intelligenza si adattano al luogo in cui mi trovo.