“Dobbiamo domandarci se le persone stanno facendo abbastanza, oggi, per prepararsi al mondo che verrà, se si stanno evolvendo insieme a lui e anche se hanno i mezzi per farlo”. Abbiamo parlato di innovazione e del modo in cui coinvolge il mondo del lavoro e del business con Piergiorgio Grossi, Chief Innovation Officer di Credem Banca

Anche l’innovazione, proprio come le idee, si muove sulle gambe degli uomini, ma questi sono pronti ad accoglierla? Negli ultimi due anni le (nuove) tecnologie sono entrate molto frettolosamente – per non dire a gamba tesa – nel quotidiano di persone, aziende e lavoratori, che spesso non hanno avuto nemmeno il tempo di assorbire tutti i cambiamenti che gli sono piovuti addosso. Cambiamenti che però oggi non sono e non devono più essere legati ad una fase emergenziale, ma inseriti in un più vasto e ambizioso percorso di crescita per il Paese, spesso ancora legato a vecchi retaggi anche per quanto riguarda il business, il lavoro e, appunto, l’innovazione.

Il mondo che verrà non è qualcosa che possiamo permetterci di osservare da spettatori un po’ distratti, ma qualcosa che ciascuno di noi può e deve contribuire a formare. E proprio per questo la formazione deve essere costante: senza retorica, siamo tutti chiamati non solo a partecipare ai cambiamenti, ma ad essere il cambiamento. Con i giusti mezzi, però, perché l’innovazione è una cosa seria e come tale va trattata, preparando il campo affinché i giocatori possano giocare la miglior partita possibile. Ne abbiamo parlato con Piergiorgio Grossi, Chief Innovation Officer di Credem Banca, un gruppo bancario che crede molto nell’innovazione, tanto da decidere di scendere in campo insieme a Cdp-Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia per favorire lo sviluppo delle startup in Italia e con l’obiettivo, quindi, di portare innovazione in un paese che ancora oggi si mostra un po’ restio, per certi versi, ad andare incontro al cambiamento.

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Piergiorgio Grossi, Chief Innovation Officer di Credem Banca

La pandemia ha portato diverse trasformazioni nel mondo del lavoro, delle aziende e del business. Se ti chiedessero di scegliere il tuo “cambiamento preferito” degli ultimi due anni riguardante questi contesti, quale sarebbe?

Come Credem da un po’ ci siamo iniziati a interrogare su come affrontare le sfide correnti e ci siamo resi conto di aver già intrapreso un percorso di innovazione: prima che il Covid arrivasse avevamo già il 30% di dipendenti che, se lo volevano, potevano fare smart working, muniti di tutti gli strumenti tecnologici dall’azienda a supporto del lavoro agile, e avevamo anche già intrapreso iniziative di organizzazione più piatta e di leadership distribuita. Pur nella tragedia, quindi, ci è arrivata la conferma che gli investimenti che avevamo fatto, e che in tanti guardavano un po’ increduli, andavano nella direzione giusta. Chiamiamolo intuito, ma insomma avevamo capito già da tempo che bisognava impostare il lavoro in una maniera diversa, incentrandolo sulle persone.

Anche lato business questi ultimi anni ci hanno fatto capire che bisogna sempre procedere su un percorso di apprendimento, saggiare nuove strade, seguire l’incertezza e sperimentare: ecco, penso che la pandemia ci abbia aiutato ad impostare questo mindset e la consapevolezza che essere flessibili è una sorta di imperativo in tutti i contesti.

Credem ti ha scelto come Chief Innovation Officer, una figura – oggi in particolare – chiamata a guidare un cambiamento che non si ferma all’innovazione tecnologica, ma che coinvolge anche mentalità, processi e modalità lavorative. Da dove hai iniziato quando sei arrivato nel gruppo bancario e quali sono, ad oggi, i passi fatti e quelli ancora da fare?

Non credo di essere colui che deve guidare l’innovazione, ma di essere colui che crea le condizioni affinché l’innovazione avvenga. Con il mio team, non ci siamo riuniti in una stanza a confezionare innovazione per poi dire al dipendente o al cliente “ecco, adesso fai così”: abbiamo deciso di dare a tutti la possibilità e le risorse per potersi innovare. Il nostro ruolo è quindi da un lato mostrare che c’è innovazione e dall’altro creare le condizioni affinché ci sia, ma ogni giorno, di fronte alle persone, alle difficoltà, ai casi reali. Io dico sempre che bisogna “pensare con le mani”, ispirando metodi nuovi, invece che chiudersi in ufficio a scrivere slides su come fare innovazione. 

 

Questi ultimi anni ci hanno fatto capire che bisogna sempre procedere su un percorso di apprendimento, saggiare nuove strade, seguire l’incertezza e sperimentare: ecco, penso che la pandemia ci abbia aiutato ad impostare questo mindset

 

In Credem ogni giorno mappiamo il territorio, a livello di startup e università, sosteniamo tematiche come quella della diversity e coinvolgiamo il consiglio di amministrazione su temi nuovi, sulle nuove tecnologie. Abbiamo una newsletter che raggiunge il 75% di dipendenti e ogni due venerdì facciamo una “Innovation Breakfast”, un incontro in cui parliamo di innovazione. Costruiamo, ogni giorno, soluzioni innovative e poi valutiamo se implementare le proposte che facciamo di volta in volta intorno ad un tema (la blockchain, per dirne uno).

Pensando al futuro, stiamo lavorando molto con l’ecosistema startup, dove c’è molta qualità sia a livello di cultura che di prodotto e abbiamo deciso di creare un piccolo fondo di corporate venture per investire in startup a livello corporate: investiamo quindi non per guadagnarci finanziariamente, ma per amplificare il business di Credem e per sperimentare nuove tecnologie e prodotti.

Credem recentemente ha deciso di aderire al progetto Fin+Tech, un percorso di accelerazione e di supporto allo sviluppo per nuove imprese innovative nato da un’iniziativa di CDP Venture Capital Sgr: il programma porterà Credem a partecipare al capitale di circa 50 startup nel prossimo triennio. Riuscirà nei prossimi anni il nostro sistema economico a rendersi più ricco e competitivo proprio grazie alle startup?

Per quanto riguarda le startup, siamo sicuramente molto in ritardo come paese, anche perché  queste sono sempre più una realtà anche europea, non più solo una prerogativa degli Usa. Il nostro problema è che facciamo fatica a farle decollare le startup. Iniziamo a vedere, però, sia quantità che qualità: in questo senso Cdp (Cassa Depositi e Prestiti, ndr) sta monitorando questo ecosistema nascente, puntando sulla quantità soprattutto perché poi sappiamo che nel “mucchio” solo una o due sono realtà che possono fare la differenza e la partita vera, poi, inizia quando si deve scalare il mercato.

In Italia sembrano esserci troppe pmi che non riescono a fare il balzo in avanti e crescere per diventare grandi aziende. Come mai?

In generale, penso che in Italia manchi ancora un po’ l’attitude per le startup e per un certo modello di imprenditorialità. In generale, per motivi storici e culturali, siamo più per la family company e in questo contesto l’interesse per la crescita è comunque “contenuto”, l’importante è stare tutti bene come dipendenti.

Questa credo sia appunto una tendenza culturale insita nell’imprenditorialità italiana. In assenza di giudizio, la nostra cultura accoglie meno il rischio e trovare un imprenditore disposto a rischiare è più raro. Per competere in altri campionati, però, non è possibile restare ancorati alla mentalità del family business.

Stiamo andando verso un futuro dove le nuove tecnologie saranno sempre più implementate e dove soprattutto l’intelligenza artificiale potrà rivoluzionare tantissimi ambiti e molte persone, molti lavoratori, si dicono spaventati. Che ne pensi? Hanno ragione?

Un po’ hanno ragione nella prospettiva del fatto che le cose che oggi può fare l’intelligenza artificiale sembrano quasi magia e spaventano, ma questa è una prerogativa delle tecnologie realmente disruptive, come si dice.

 

Per motivi storici e culturali, siamo più per la family company e in questo contesto l’interesse per la crescita è comunque “contenuto”, l’importante è stare tutti bene come dipendenti.

 

 

Onestamente però non vedo un mondo dove le macchine ci domineranno e neppure un futuro dove l’IA ruberà lavoro alle persone: le attività umane, d’altronde, sono sempre state soggette – e meno male – all’evoluzione e anche questa volta, per effetto delle nuove tecnologie, il lavoro cambierà. Il vero punto è domandarsi se le persone stanno facendo abbastanza, oggi, per prepararsi al mondo che verrà, se si stanno evolvendo insieme a lui e anche se hanno gli strumenti per farlo: leggere un libro all’anno non basta più, fare un solo mestiere in tutta la vita non è più pensabile e bisogna mettersi bene in testa che l’innovazione coinvolge e coinvolgerà tutti, in un modo o nell’altro, quindi è meglio non farsi cogliere impreparati. È un cambiamento culturale ed è la scuola che deve iniziare a preparare i bambini per il mondo che si troveranno di fronte.

A livello di business, quali settori verranno travolti dall’innovazione nei prossimi anni? E quali saranno i prossimi trend emergenti?

Con la pandemia ci siamo resi conto che medicina è un campo dove abbiamo urgente bisogno di innovazione, per quanto riguarda le tecnologie, la ricerca, i processi e i servizi, quindi penso che resterà per diverso tempo un ambito in fermento. Poi, come trend, di sicuro c’è la sostenibilità, l’energia, la blockchain, il Web3, il quantum computing, la cybersecurity (sempre più indispensabile se si muove tutto il resto) e la robotica, tutti fenomeni caldissimi, da continuare a osservare da vicino.

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