L’8,5% delle imprese italiane è in completo digiuno digitale. Paola Generali ci spiega gli ostacoli, le luci e le ombre che il nostro Paese incontra lungo il suo percorso di digitalizzazione.

Il digitale e il mercato ICT business in particolare sono in crescita in Italia, nonostante l’inflazione e il rallentamento dell’economia. Il settore però è a due velocità: se l’Information Technology galoppa, con previsioni ulteriormente migliorative per il 2024, il segmento Telecomunicazioni sembra piuttosto fermo. Fra i dati più allarmanti, quasi un’impresa su dieci non ha neanche un computer.

Da una survey condotta dall’Istituto Ixé, che ha coinvolto 1000 imprese e pubbliche amministrazioni, emerge che le tre tecnologie più diffuse sono quelle riguardanti la collaborazione, ovvero PC e smartphone presenti nel 79,1% delle aziende, la connettività (banda ultra larga e wifi) con il 73,3% e la cybersecurity (65,1%). Circa la metà, inoltre, ha già adottato soluzioni per il sito web aziendale, soprattutto l’e-commerce (53,9%) e soluzioni gestionali e di back office (47%). Meno del 10%, invece, investe o sta pianificando di investire nelle tecnologie emergenti, come l’Intelligenza Artificiale (7%) e la Blockchain/NFT (2,8%), sebbene i tassi di crescita a livello macroeconomico di tutte queste restino a due cifre.

Abbiamo intervistato Paola Generali, Presidente Assintel Confcommercio, l’Associazione nazionale delle imprese Ict (Information and Communication Technologies) che recentemente ha presentato il suo report annuale in Senato, oltre ad aver lanciato il contest per premiare i migliori progetti tecnologici del panorama nostrano: le startup innovative hanno tempo fino al 15 dicembre per partecipare all’Assintel Digital Awards 2024 nelle categorie “IA”, “Cybersecurity” e “Blockchain”. In palio ci sono servizi e convenzioni con Grenke, Intesa San Paolo, Tim e Open gate.

Quanto costa alle aziende la digitalizzazione?

In realtà parlare di costo in quest’epoca storica ci fa ritornare concettualmente indietro di almeno 10 anni: l’ICT finalmente è considerato dalle aziende un investimento che porta valore ed è questa la notizia migliore fra tutte! Il nostro Assintel Report 2023 ci dice infatti che il mercato ICT business arriverà a fine 2023 a quasi 39 miliardi di euro e questo significa un aumento degli investimenti da parte delle imprese del 4,8% rispetto allo scorso anno. Otto imprese su dieci hanno intenzione di confermare gli investimenti nel digitale, e il 29% ha intenzione di aumentarli nel 2024.

Se mai il problema è che non tutte le aziende hanno la liquidità necessaria o la cultura manageriale per realizzarlo, in special modo la fascia delle micro e piccole imprese. Le grandi società con oltre 500 addetti restano infatti la principale fonte di spesa ICT in Italia, assorbendo oltre il 56% della spesa. Fanalino di coda le micro imprese, che assorbono il 10% della spesa e che tendenzialmente investono poche migliaia di euro l’anno in media per le dotazioni digitali strettamente necessarie.

Che cosa si può fare?

Fra le proposte che abbiamo inviato al Governo nel recente Position Paper abbiamo stressato il concetto di rivedere la normativa sui bandi di finanziamento e gli incentivi fiscali, imperniandola su una parola chiave: liquidità. Ad esempio, una MPMI (micro, piccole e medie imprese, ndr) che vincesse un bando di finanziamento per la digitalizzazione dei propri processi o per fare R&D (Research and Development, ndr) perché azienda dell’offerta di digitale, dovrebbe poter ottenere immediatamente il 100% del contributo a fondo perduto anticipato da una banca con la collaborazione dei Cofidi, grazie alla costituzione di un fondo di Garanzia Pubblico. Anche i criteri sul merito creditizio devono cambiare, basandosi sul progetto anziché esclusivamente sui classici parametri che vengono utilizzati per valutare la società richiedente.

La digitalizzazione, quali effetti e conseguenze ha?

Per un’impresa, a maggior ragione piccola, digitalizzare e farlo in modo performante significa essere più competitivi sul mercato, raggiungere clienti in tutto il mondo, aumentare il potenziale di crescita e le opportunità di business e anche essere più sostenibile. Il Digitale è un abilitatore di business: abbiamo intervistato un campione rappresentativo di 1000 imprese, e ai primi due posti fra le aree aziendali in cui dichiarano necessario introdurre innovazione troviamo – guarda caso – il marketing e la comunicazione, nel 31% di loro, e la gestione di clienti, al 22%.

A cosa è dovuta la differenza nella “velocità” di crescita tra Information Technology e Telecomunicazioni?

Se il segmento IT continua stabilmente a crescere – quest’anno al +5,8%, che salirà al +8,4% nel 2024 -, quello TLC continua stabilmente a ristagnare: -0,8%. Dobbiamo però ricordare che questi dati si riferiscono al mercato business, in cui le TLC valgono 5,9 miliardi su 39: è un mercato “minore” rispetto a quello consumer, che infatti vale 13,7 miliardi, e influenzato dalla contrazione dei prezzi dovuta alla battaglia competitiva degli operatori. Parlare di IT invece significa entrare nel cuore delle organizzazioni, che devono inseguire sia le innovazioni tecnologiche che corrono a ritmi pazzeschi sia le aspettative dei clienti modellate dalle stesse tecnologie. È un processo circolare a somma positiva, che sta alimentando un’accelerazione dell’IT mai vista prima, di cui l’AI è un esempio emblematico.

Quasi un’impresa su dieci è in completo “digiuno digitale”: come mai?

Sì, è vero, l’Assintel Report ha registrato che l’8,5% delle imprese italiane è in completo digiuno digitale: significa che nel nostro Paese 130.000 aziende, soprattutto di piccole dimensioni, non sono dotate nemmeno di un pc. La maggior parte ha tra 3 e 9 addetti, è nel settore del commercio ed è situata al sud. Il perché è presto detto: i principali ostacoli alla digitalizzazione, sentiti particolarmente nel segmento delle micro e piccole imprese, si confermano essere la scarsa disponibilità finanziaria – è il motivo per cui un’azienda non si digitalizza nel 31% dei casi – e la mancanza di cultura e competenze digitali, che pesa per il 32,4%.

Perché le imprese italiane non investono nelle nuove tecnologie come l’Intelligenza Artificiale?

In realtà le nuove tecnologie come l’Intelligenza Artificiale e la Blockchain sono ancora in una fase di “startup”: come direbbe la famosa Curva di Rogers di adozione della tecnologia, sono ancora in una nicchia appannaggio dei cosiddetti Innovators – statisticamente sono circa il 2,5% sul totale -, subito dopo arriveranno gli “early adopters”, pari al 13,5%, e via a seguire tutti gli altri. La nostra ricerca ci mostra risultati assolutamente in linea con la maturità del processo: il 7% delle imprese sta “frequentando” l’Intelligenza Artificiale, lo 0,6% ha già implementato progetti estesi a tutta l’organizzazione o a singoli reparti, il 3,1% è in fase di sperimentazione e il 3,3% ci sta pensando. Queste percentuali, tipicamente da early adopters, unitamente al diffondersi del buzz sia nel B2B sia a livello mediatico, ci spiegano anche come mai il mercato AI cresce addirittura del 28% sia nel 2023 sia nelle stime 2024.

Come si può migliorare la digitalizzazione?

La digitalizzazione è come un virus benevolo: una volta che entra dentro le nostre vite, ci conquista e non è più possibile tornare indietro. Quello che fa è peculiare: entra nel DNA delle organizzazioni e ne modifica i processi, le competenze, la cultura. Il punto, però, è arrivare a tutte loro, non solo a quelle più grandi che hanno di default le risorse e la visione per abbracciarla.

Qui il mercato ha fatto la sua parte: spinte dai fattori esogeni dell’esperienza pandemica, moltissime imprese sono passate rapidamente al digitale per poter continuare a sopravvivere. Ma è stato un bisogno circoscritto, spinto dalla contingenza e dalla paura, non da una progettualità di lungo periodo. Storicamente, l’approccio alla digitalizzazione in Italia è stato frammentato in termini di politiche, decisioni, normative, investimenti infrastrutturali e dialogo tra gli attori coinvolti.

A cosa ha portato questa frammentazione?

A una diffusione disomogenea delle tecnologie, sia nelle imprese che nella Pubblica Amministrazione. Ha lasciato ai margini tante micro imprese incapaci di fare il salto. Non solo, ma è stato ed è ancora un fattore limitante per la piena realizzazione dei benefici derivanti dagli investimenti in ICT e dai finanziamenti nazionali ed europei per la crescita economica. Per queste ragioni abbiamo lanciato ad ottobre in Senato un messaggio forte alla politica: l’associazione mette al servizio delle Istituzioni il proprio know how per contribuire ad una strategia digitale efficace e pervasiva.

Come si può favorire la transizione digitale?

Sono tante le cose che si possono fare. Una cosa per noi essenziale è adottare politiche specifiche per le micro, piccole e medie imprese, che è la fascia più a rischio, creando bandi ad hoc e un accesso al credito su misura che dia loro vera liquidità. C’è poi, sul versante opposto, il tema delle piccole imprese del Made in Italy digitale, che vivono i medesimi problemi di liquidità dei loro clienti ma che in aggiunta sono spesso intrappolate come sub fornitori nei progetti delle Big Tech, con tariffe professionali insostenibili: su questo fronte occorre rafforzare il principio di libera concorrenza e rimettere mano alle norme delle gare pubbliche.

Cosa si può fare invece per consolidare la cultura digitale?

Occorre lavorare sulle nuove generazioni. Secondo noi bisogna innanzitutto agire sul mondo scolastico, per assicurare la formazione di profili professionali adeguati alle esigenze delle imprese, che oggi scarseggiano. Tra le nostre proposte, in questo senso, c’è quella di modificare l’offerta formativa della scuola pubblica per includere maggiori percorsi orientati alle discipline Stem e avviare iniziative di sensibilizzazione a queste discipline. E poi chiediamo di potenziare i Licei Scientifici e gli ITIS con indirizzo tecnologico aumentando il numero di classi del 50% rispetto all’attuale programmazione.

Molto importante sarebbe anche creare un fondo per lo sviluppo di programmi formativi in collaborazione con le aziende; introdurre la possibilità di erogazione delle lezioni da parte di esperti aziendali a partire dal quinto anno scolastico. E promuovere partnership tra aziende, in particolare PMI, e facoltà universitarie scientifiche, individuando inoltre percorsi di laurea triennali verticali al fine di disporre di laureati specializzati e disponibili sul mercato del lavoro già dopo tre anni di studi universitari.

In conclusione, cosa serve per una digitalizzazione vera ed efficace in Italia?

Cosa serve? Una visione e una strategia politica che guardi al lungo periodo, e poi a mani basse andare sul territorio creando un vero ecosistema digitale, definendo una Governance e ruoli precisi tra Associazioni di Categoria, Imprese, Digital Innovation Hub, Istituzioni locali, Università, Competence Center, tutti gli stakeholder, compresi i cittadini. Perché il tema è sia culturale sia economico–finanziario e riguarda l’evoluzione stessa dei territori nel loro complesso.

Ma il nostro chiodo fisso, in questo frangente storico, va alla piccola impresa. Il nostro tessuto imprenditoriale numericamente è fatto per la stragrande maggioranza di micro e piccole aziende e queste non possono farcela da sole, hanno bisogno di sostegno e indirizzo.