Per Martina Rogato, fondatrice di ESG Boutique e attivista G7/G20, «Nelle organizzazioni non-profit i posti di lavoro sono pochi ed è difficile entrare. Uno dei grandi problemi riguarda la raccolta fondi e il garantire la sostenibilità economica, mantenendo l’indipendenza. Vedo le difficoltà della Generazione Z e dei Millennials, che non riescono a dare il loro contributo come professionisti perché oltre al volontariato non c’è nulla. Non si vive di sole passioni».
Secondo la Fondazione per la Sussidiarietà il valore della produzione del non-profit in Italia ha raggiunto nel 2022 gli 84 miliardi di euro (+5% rispetto al 2020).
Nonostante ciò, secondo quanto riportato da Istat il numero dei volontari e delle volontarie è diminuito. Nel 2021, infatti, se ne sono contati 900 mila in meno rispetto ai 5,5 milioni registrati nel 2015.
Con Martina Rogato, che è anche co-fondatrice di Young Women Network e Board Member di Human Rights International Corner, abbiamo discusso di come sia necessario un mercato del lavoro più fluido e dell’importanza di partire dall’educazione a scuola e nelle Università per formare persone capaci nel settore della sostenibilità.
Sei stata nominata tra le mille donne che stanno cambiando l’Italia con il suo attivismo sociale. Quali sono le difficoltà più grandi che hai incontrato durante il tuo percorso?
Credo che l’attivismo stia vivendo un periodo di confusione. Mi spiego meglio, chi porta temi sociali e ambientali sui social network, spesso fa divulgazione e non attivismo.
L’attivismo prevede azioni concrete, come quelle delle persone che fanno parte di associazioni o fondazioni, che si sporcano le mani ogni giorno. Temo che la Generazione Z possa rimanere focalizzata sul fatto che il proprio contributo nasce e si estingue sui social network. Con questo non voglio dire che non sia fondamentale metterci la faccia, anzi lo incoraggio.
Ciò che mi preoccupa consiste nel vedere persone non preparate sul cambiamento climatico e sulle pari opportunità, per esempio, condividere informazioni non corrette.
Suggerisco di seguire le persone che nella vita reale fanno attivismo e che poi divulgano. Vedo poche eccezioni di divulgatori e divulgatrici con un alto livello di preparazione. Oppure, vedo professori e professoresse, come giornalisti e giornaliste, che divulgano come secondo mestiere.
Per concludere, una delle sfide dell’attivismo è avere persone preparate e utilizzare i social network in modo da generare informazioni corrette e approfondite.
Sei stata attivista per dieci anni per Amnesty International. Quali sono le dinamiche di una non-profit? E da dove pensi sia necessario partire per rendere economicamente sostenibile il lavoro al suo interno?
Ritengo che l’attivismo debba essere fatto da professionisti e che, quindi, devono esserci posti di lavoro per poter fare attivismo e lavorare nelle organizzazioni non-profit. Questo fuori dall’Italia avviene, all’interno del nostro Paese, invece, è molto più complesso.
Io, ad esempio, come anche la dottoressa Sabbadini, che era al Women 20, durante la presidenza italiana abbiamo assolto la funzione di portavoce a titolo gratuito pro bono, qualcosa di impensabile in altri Paesi.
Sono necessari dei percorsi di preparazione per professionisti e professioniste del mondo non-profit a partire dall’educazione nelle scuole e nelle università. Una laurea in relazioni internazionali, per esempio, non forma le persone rispetto alle posizioni del mondo non-profit. Bisogna farsi le domande giuste quando si vuole fare un percorso di questo tipo, per esempio se voglio occuparmi di parità di genere è giusto che io mi chieda cosa vuol dire lavorare in questo ambito. O pormi domande specifiche: “Voglio occuparmi del fundraising o del marketing?” In questo senso, l’educazione dovrebbe essere la chiave per formare persone capaci di avere un impatto positivo.
Inoltre, la società in questione dovrebbe avere il coraggio di investire in queste persone e nelle loro competenze. Mentre, spesso, la priorità è distaccarsi dal mondo profit. Come, però, diceva un mio vecchio datore di lavoro: “Non per il profitto, ma non senza profitto”, perché è fondamentale pagare stipendi dignitosi alle persone che danno il loro contributo.
Quando hai deciso di fondare la società ESG Boutique e per quale motivo?
Ho sempre fatto consulenza, ho iniziato nel 2010, prima come dipendente, poi ho perso il lavoro e sono diventata una consulente freelance. L’anno scorso ho deciso di costituire la mia impresa, che è una società boutique che si occupa di sostenibilità e diversità.
Faccio sempre lo stesso lavoro, però da una prospettiva diversa. Il motivo principale per cui ho deciso di restare indipendente per anni e poi di costituire la mia società è da ricondurre al fatto che mi sono resa conto di come in molte società di consulenza i dipendenti siano costretti a lavorare a ritmi eccessivi e abbiano pochi diritti.
Volevo continuare a fare il lavoro che amo, cioè accompagnare le grandi aziende in percorsi di sostenibilità e diversity, mantenendo i miei valori integri, senza rientrare in logiche di sfruttamento lavorativo, che è il paradosso di fare consulenza sui diritti umani.
Nel mio ultimo lavoro da dipendente dormivo una media di quattro ore a notte con l’obiettivo di performare. Se da un lato è importante realizzare i propri sogni lavorativi, dall’altro sentivo anche la necessità di rimanere fedele ai miei valori. Un’altra cosa che avrei voluto fare nella mia vita era advocacy a livello professionale.
A proposito di fare advocacy, sei anche la co-fondatrice di Young Women Network, come è nata l’associazione e quale è stato il tuo percorso al suo interno?
Young Women Network è la prima associazione in Italia dedicata al networking, mentoring ed empowerment delle giovani donne e nasce nel 2012. Mentre l’Associazione di Promozione Sociale Young Women Network nasce nel 2014 e ne sono stata presidente fino al 2020. L’obiettivo è valorizzare il ruolo delle giovani donne nella società e contribuire al superamento del divario di genere.
YWN è stata una grandissima esperienza in cui ho visto realizzarsi la creazione di progetti concreti di advocacy e in cui ho potuto portare il mio contributo come attivista. Dedicare il proprio tempo libero a una causa, mettendo la propria professionalità a disposizione, l’ho imparato durante il mio percorso in Amnesty.
Dopo questa esperienza ho deciso di fondare Human Rights International Corner, insieme ad altri professionisti e professioniste, con l’obiettivo di sensibilizzare gli enti pubblici, privati e la società civile sui Principi Guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani. Questa esposizione data dalle due organizzazioni ha fatto sì che io potessi essere invitata a far parte della delegazione italiana del G20, per poi trovare il coraggio di rispondere a una call internazionale relativa al Women 7.
Spostando l’attenzione sui green jobs, secondo l’OCSE dal 2011 al 2021 sono aumentati del 2%, dal 16% al 18%. L’Italia in Europa ha le quote più basse, insieme a Grecia e Spagna. Quale sarà secondo te il futuro dei lavori nella sostenibilità?
Fino a cinque anni fa tante aziende non erano interessate alla sostenibilità e hanno impiegato tempo per capire che fosse necessaria una divisione al suo interno interamente dedicata a questo aspetto. Sempre di recente si sta anche avvertendo la necessità di avere qualcuno all’interno dell’azienda che si occupi della diversity e che abbia un’apposita formazione, senza convertire le risorse di altri settori.
Io ho fatto un master sulla sostenibilità nel 2012 ed era la prima edizione del Master in Management della Bocconi in lingua inglese. Ora si chiama MASEM. L’ho fatto tre anni dopo dalla laurea perché era un investimento economico sostanzioso. All’epoca non avevo scelta, c’erano pochissime alternative. Adesso finalmente vedo che c’è l’opportunità di ricevere una formazione adeguata senza doversi per forza trasferire a Milano, che non è una città in cui tutte le persone possono permettersi di vivere o in cui vogliono vivere. Le aziende ora hanno bisogno di persone senior per fare formazione ma non ne trovano, perché queste persone sono ancora giovani e si stanno formando, visto che i corsi universitari ci sono da pochi anni.
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