I corsi di “Diversity Management” spiegano a dirigenti e dipendenti l’inclusione, puntando alle pari opportunità. Il format di Marta Telatin prevede anche le cene al buio: l’abbiamo intervistata.
“Ci vediamo al buio” è il mantra di Marta Telatin, autrice, poetessa e pittrice padovana che ha perso la vista durante l’adolescenza: da allora lavora nell’ambito della formazione e della scrittura. I suoi corsi di “Diversity Management” spiegano l’inclusione in azienda, bendando i partecipanti.
I presenti vengono davvero tutti bendati e nella totale oscurità sono chiamati a fare dei giochi di ruolo e ad interagire, senza poter usare lo sguardo. Il lavoro d’altra parte va giudicato – e pagato – non in base all’apparenza della persona ma in base alle sue reali capacità, agli obiettivi e alle competenze. Il progetto, aperto con un incontro di quattro ore ad ottobre, continuerà nelle prossime settimane.
La Regione Veneto infatti ha finanziato alcune azioni di sistema per garantire il miglioramento della qualità di vita e di lavoro nelle imprese. La cornice legislativa è quella della direttiva ridenominata “Pari” (Progetti e azioni di rete innovativi per la parità e l’equilibrio di genere).
In questo quadro il progetto “Siadom” (Social Innovation alliance for diversity management and innovation of organizational models), gestito da Fòrema, ha coinvolto 150 persone – dai dipendenti agli imprenditori – e 44 partner tra organismi pubblici e privati, con la collaborazione delle Università di Padova e Ca’ Foscari di Venezia.
Marta, com’è nata la tua attività su questo tipo di progetti e laboratori?
In realtà è nata per un fatto personale. Ho perso la vista all’età di 13 anni a causa di una malattia genetica e dopo le superiori – quando mi sono iscritta all’università e quindi anche il mio percorso di accettazione era non concluso, ma comunque a metà strada, ecco – ho iniziato a concentrare tutta la mia formazione universitaria sull’importanza dell’uso dei sensi.
Com’è stato il tuo percorso di studi?
Sono laureata in scienze della comunicazione e in sociologia: quando dovevo fare qualsiasi esame che richiedeva la stesura di una tesina o di una relazione in cui potevano centrare i non vedenti, cercavo sempre di fare delle ricerche comparando le persone vedenti e le persone non vedenti, non tanto per spiegare alle persone che vedono come noi “vediamo” ma proprio per far emergere l’importanza di tutti i sensi. Quindi nel momento in cui sono riuscita a laurearmi in entrambi i corsi che avevo intrapreso, ho realizzato questo format, questo laboratorio dove appunto parlo dell’importanza dell’uso dei sensi per destrutturare i nostri punti di vista.
E applichi questo laboratorio anche alle aziende?
Sì, ho cominciato in primis nelle scuole, soprattutto all’inizio, poi per 5 anni ho lavorato anche in carcere a Padova un po’ a pagamento un po’ volontaria, non era un lavoro ben definito. Ho continuato nel mondo della scuola e nel mondo associativo fino ad approdare anche alle aziende: ho cominciato prima del Covid, i due anni di lockdown non hanno aiutato e adesso ho ripreso.
Come si svolgono i corsi?
Il corso di formazione che propongo alle aziende è diverso rispetto a quello che propongo alle associazioni e alle scuole, cioè gli obiettivi sono sempre gli stessi, però si lavora più sul team working, vado a stimolare tutta una serie di cose e ogni attività poi va comparata all’ambiente di lavoro. Quindi se io devo raggiungere un obiettivo e da bendato mi sono comportato in questo determinato modo, probabilmente mi comporto così anche nella vita quotidiana.
A questo punto cosa succede?
Si apre un focus group con domande come queste: come mi approccio al limite? Se mi capita qualcosa come reagisco? Quindi praticamente si parte con una prima parte dove racconto i 22 sensi che ho sviscerato dopo aver perso la vista. Ovviamente non c’è niente di scientifico, è il mio punto di vista: racconto questi 22 sensi che sono sostanzialmente i 5 che conosciamo, il sesto senso e altri 16 sensi con cui spiego meglio il sesto senso stesso; è come se io lo paragonassi ad un fiume principale e questi 16 sensi sono gli affluenti.
Dopo la teoria c’è la pratica?
Arrivano le attività con il senso della vista: faccio vedere delle immagini e le persone mi dicono che cosa vedono. Poi ci presentiamo in una maniera creativa, quindi non vado a chiedere a una persona che lavoro fa: magari ti chiedo che canzone vorresti essere? Che oggetto vorresti essere? Serve proprio per iniziare ad usare anche l’immaginazione, perché alla fine la razionalità ti porta da una parte all’altra, invece l’immaginazione crea mondi possibili: con l’immaginazione vai ovunque.
È ora il momento delle attività da bendati?
Sì, subito dopo questa parte in cui il senso della vista è ancora preponderante, inizio con delle attività individuali per poi mettere i partecipanti in coppia e in gruppo. Quindi si va a lavorare sulla fiducia. Un esercizio può essere questo: tu sei bendato, il tuo collega no; ti accompagna in giro e tu come reagisci? Sei rigido? Ti stai fidando? Ti lasci andare? La benda ti fa paura oppure no?
Per quanto riguarda le aziende, chi sono i partecipanti?
Finora ho sempre avuto manager, un’unica volta ho avuto anche dipendenti amministrativi. Invece da gennaio ho un’altra azienda dove dovrò fare formazione più intensa e sarò con un gruppo di operai, perché devono lavorare sull’inclusione e la diversità. Sarà divertente vedere anche le differenze di reazione.
Come finisce il corso?
Il percorso si può concludere nel laboratorio stesso oppure c’è un’altra possibilità: fare la cena al buio. Le reazioni sono diverse: con la benda sai che la togli e c’è subito la luce. La cena al buio invece ti spiazza molto di più perché entri in una stanza completamente buia dove l’occhio non si abitua e quindi tutta la tua modalità di controllo si sgretola: accade anche con la benda, sia chiaro, però un po’ meno.
Come reagiscono i manager?
In maniera differente. Chi è molto razionale e ha la mania del controllo è rigido e si lascia andare con più difficoltà. Chi è un manager magari un po’ più creativo sguazza in questo tipo di attività perché gli do l’opportunità di spaziare moltissimo. Quello che io rilevo è che comunque alla fine del percorso i feedback sono tutti positivi: anche quello più rigido, razionale e ansioso è felice dell’esperienza.
Al termine i manager hanno una mentalità più aperta?
Beh, se riuscissi a fare questo miracolo sarebbe bellissimo (ride, ndr). Non so obiettivamente se tutti sono o diventano più inclusivi e più aperti. Sono però sicura che questo tipo di formazione sia un semino: però, come per tutte le piante, non basta mettere il semino nella terra se non gli dai da bere. Quindi poi sta al carattere di una persona smussare e raccogliere quello che ha imparato e portarlo avanti. Ti faccio l’esempio delle scuole, gli insegnanti mi dicono: se noi riprendiamo quello che tu hai fatto, i ragazzi sono contentissimi. Quindi è una cosa che va ripresa non tanto da me, ma dalla forma mentis.
I partecipanti diventano più inclusivi?
Il discorso dell’inclusione è molto difficile secondo me, se ne parla tanto ma l’inclusione non esiste: per essere inclusa io dovrei essere solo Marta Telatin e invece bisogna scrivere che sono non vedente per spiegare tante cose. Faccio sempre un esempio: se tu in cucina metti lo zucchero e il sale in due barattoli senza la scritta, rischi di confonderli perché sono uguali. Quindi la scritta per distinguere lo zucchero dal sale ci può stare, l’importante è che sia piccolina e non abbia i led (ride, ndr)! L’inclusione ne ha di strada ancora da fare, non per i disabili ma per qualsiasi forma di diversità, perché la diversità fa paura.
In che senso questi corsi sono una metafora della vita in azienda?
Nel senso che ti propongo degli esercizi, anche se preferisco chiamarli giochi o attività, dove tu devi fare delle cose che non c’entrano assolutamente niente con la vita d’azienda, come l’esempio della persona che ti guida: però se tu lo trasferisci all’interno dell’azienda, sei in ufficio e devi collaborare con gli altri; probabilmente hai una persona che dal punto di vista piramidale e gerarchico è un po’ più in alto di te, quindi magari ti guida, ti aiuta a raggiungere l’obiettivo.
Allora le domande sono: tu che carattere hai? Accetti i suggerimenti o pensi di sapere tutto te? Oppure faccio fare il labirinto: sei bendato e devi raggiungere la persona che sta battendo le mani. Come raggiungi questa persona e quindi l’obiettivo? Ti prefissi un obiettivo e ti arrabbi, ridi, vai con leggerezza… Queste attività certo non sono la vita in ufficio, ma poi nel momento in cui determiniamo e ci sediamo in cerchio e parliamo, facciamo focus group e allora colleghi il tutto a come solitamente lavori in azienda.
Hai un aneddoto in particolare su questi laboratori?
È successo una volta di un gruppo di persone che urlavano tantissimo. E ce n’era uno che si arrabbiava perché non riusciva a capire delle cose da bendato: quando abbiamo fatto il confronto è emerso che lui fa così anche durante le riunioni. Dunque ci si mette in discussione da questo punto di vista.