«L’hate speech è un problema e bisogna chiedersi perché succede e che cosa si può fare per evitarlo. La pericolosità credo consista nel fatto che le persone che usano un linguaggio d’odio si sentono legittimate a farlo. Non si tratta di dimostrare superiorità non rispondendo, il punto è che dall’altra parte c’è una persona che si sente in diritto di comportarsi così». A dirlo è Sambu Buffa, Consulente e Esperta D&I nel Marketing e nella Comunicazione. 

Nell’era digitale in cui viviamo, i social media rappresentano un palcoscenico globale in cui le aziende possono connettersi con il loro pubblico in modi sempre diversi. Tuttavia, con una simile opportunità emerge anche la responsabilità di adottare pratiche di marketing inclusivo e di utilizzare un linguaggio corretto per riflettere la moltitudine di gruppi sociali che esistono.

Secondo i dati riportati dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), nel 2023 l’87% degli utenti italiani delle piattaforme social ritiene che le aziende debbano impegnarsi attivamente nel promuovere un’immagine che si distacca dagli stereotipi e che sia comprensiva di tutte le persone, ognuna con le sue peculiarità.

Un altro dato rilevante proviene da uno studio condotto dalla Digital Marketing Association Italy, il quale rivela che le campagne pubblicitarie che incorporano elementi di inclusività registrano un aumento del 30% nell’engagement online rispetto a quelle che non adottano tali approcci. Di questo e di come è possibile acquisire tale consapevolezza ne abbiamo parlato con Sambu Buffa, Consulente e Esperta D&I nel Marketing e nella Comunicazione.

Cosa significa per te marketing inclusivo e come sei arrivata a questo lavoro?

L’approccio inclusivo al marketing serve per tenere conto di tutte le persone che fanno parte del mercato di riferimento. Mi riferisco ai gruppi minoritari, cioè persone che solitamente e storicamente sono sempre state escluse o non valorizzate. Accade che vengano rappresentate attraverso degli stereotipi e dei pregiudizi negativi. Per questo, per me marketing inclusivo vuol dire essere consapevoli di chi si sta escludendo. Non parlo di senso di colpa, ma di consapevolezza. L’inclusione è un processo, non è solo un insieme di task da svolgere. Rimanere in costante aggiornamento e farsi delle domande è fondamentale perché le persone evolvono, come i loro bisogni e così la società.

Qual è la tua esperienza personale al riguardo?

Ho provato come utente che cosa vuol dire sentirsi esclusa quando ho iniziato a lavorare. All’epoca molte persone hanno riconosciuto in me una persona che sapeva dare voce alla diversità. Mi chiedevo come i clienti che venivano da me potessero sentirsi a casa attraverso le mie azioni. Ad esempio, una volta un ragazzo in carrozzina aveva bisogno di pantaloni adattivi e nel negozio non c’erano, così chiesi alla società in cui lavoravo se era possibile fare qualcosa, riflettendo sul perché le esigenze di questa persona non fossero state considerate fino a quel momento. Da lì ho iniziato a specializzarmi nel marketing e a capire che il cambiamento richiede tempo perché siamo esseri umani.

Comunicare sui social è sempre più difficile, perché? È possibile fare qualcosa?

I miei primi lavori nel mondo del digitale sono stati come social media manager, mi occupavo di educazione. Insegnavo ai genitori e agli studenti delle elementari a fare attenzione a non credere a tutto quello che si vede online. I social sono uno strumento, non rappresentano la vita vera, anche se per qualcuno lo è. Può essere difficile distinguere le due cose. Il linguaggio non riguarda solo le parole, ma anche il modo in cui una persona, un’azienda o un brand decidono di raccontarsi. Ha un impatto enorme sulla vita delle persone, proprio perché non c’è più la distinzione netta che c’era anni fa tra il mondo digitale e il mondo reale. Adesso è tutto più fluido.

Molte persone credono davvero a quello che vedono sui social e non mi riferisco solo alle notizie, ma anche al racconto della vita che ciascuno fa. Io sono grata di quello che ho potuto fare attraverso i social e delle persone con cui mi ha permesso di entrare in contatto. Bisogna fare attenzione a non farsi travolgere e sapere che esistono gli algoritmi, oltre a essere consapevoli del ruolo che gioca e giocherà l’intelligenza artificiale.

I nostri bias vengono alimentati dall’algoritmo che ci propone quello che è in linea con i nostri interessi. Come possono gli utenti avere gli strumenti necessari per saper filtrare ciò che vedono e leggono?

La mia paura più grande sono gli insulti gratuiti fatti in modo consapevole e diretto. All’inizio della mia carriera avevo aperto un canale YouTube in cui parlavo di make-up e beauty indirizzandomi alle persone nere. Avevo ricevuto battute non piacevoli, come: “Se non ti va bene così, tornatene in Africa!”. Da lì ho cominciato a chiedermi cosa potessi fare per difendermi. Su YouTube e Instagram, per esempio, c’è la possibilità di inserire e scegliere le parole che all’interno del tuo profilo o tra i tuoi commenti non possono essere usate. Trovo utile usare questo strumento che filtra l’insulto diretto, poi c’è stato anche un lavoro offline da parte mia nel fortificarmi.

L’hate speech è un problema e bisogna chiedersi perché succede e che cosa si può fare per evitarlo. La pericolosità credo consista nel fatto che le persone che usano un linguaggio d’odio si sentono legittimate a farlo. Non si tratta di dimostrare superiorità non rispondendo, il punto è che dall’altra parte c’è una persona che si sente in diritto di comportarsi così. Le cause sono da ricondurre alla rappresentazione che fa la società dei diversi gruppi sociali, ai media, alla politica, ma non solo.

Come sei arrivata a questa consapevolezza?

Attraverso esperienze personali, oltre che il recupero e l’ascolto dei miei traumi di vita. Questo aggiunto allo studio e all’approfondimento della società in cui vivo mi ha permesso di vedere lucidamente il contesto in cui viviamo, senza sentirmi sbagliata. Sono cresciuta in una famiglia bianca senza avere il privilegio bianco, per questo mi sono sentita trattata in modo diverso nel corso degli anni e durante la mia crescita. La confusione sulla mia identità e il desiderio di ricerca delle mie origini mi hanno portata a empatizzare con chi vive una situazione di marginalizzazione. Per apprendere più informazioni sulla storia dei miei predecessori dovevo andare in biblioteca e fare 70 chilometri, oggi internet ha accorciato le distanze.

Quando ero piccola e le persone mi toccavano i capelli ne soffrivo molto, mi chiedevo perché si sentissero in diritto di toccare il mio corpo senza permesso, poi ho capito che avveniva a causa di profonde radici culturali, atteggiamenti e abitudini che si danno per scontate, ma che in alcuni casi, per fare sentire tutte le persone incluse, andrebbero decostruite. Per questo oggi aiuto i miei clienti ad adottare quello che si chiama un “diversity mindset”, in modo da rispettare la vita e la dignità di ogni persona.