Quello della diminuzione della conoscenza lessicale e dell’impoverimento della lingua è solo uno dei tanti aspetti critici della nostra società che Mario Benedetto, giornalista e docente universitario, affronta nel suo nuovo saggio “Evoluzione Tribale”, edito da Luiss University Press

Si chiama “effetto Flynn” il fenomeno per il quale il valore del quoziente intellettivo medio della popolazione tende ad aumentare nel corso degli anni, ma a partire dalla fine degli anni 90′ è stata registrata nei paesi sviluppati un’inversione di tendenza e il valore medio del QI ha iniziato a diminuire. A confermare questo “effetto Flynn inverso” arrivano anche i poco incoraggianti dati Piaac-Ocse che mostrano un aumento del numero di analfabeti funzionali nel nostro paese. La stessa difficoltà si riscontra anche nell’elaborare un proprio pensiero critico successivamente alla lettura. Quello della diminuzione della conoscenza lessicale e dell’impoverimento della lingua è solo uno dei tanti aspetti critici della nostra società che il professor Mario Benedetto, giornalista con un’ampia esperienza nell’ambito dell’audiovisivo e dei media e docente universitario affronta nel nuovo saggio “Evoluzione Tribale”, edito da Luiss University Press.

Nel suo testo parla del “nuovo” come un’esigenza, o meglio un’ossessione, cosa intende?

Oggi siamo coinvolti in una continua rincorsa per il “nuovo”, dai bisogni di ordine pratico a quelli di ordine emotivo. Non dobbiamo correre il rischio di farci “misoneisti”, quindi essere avversi alle innovazioni, ma imparare a dare un ordine di priorità ai nostri bisogni. Il “nuovo” è un concetto che si fa sempre più breve e che vale per molti ambiti, anche distanti tra loro, che vanno dal modello di smartphone fino alle relazioni sociali.

Discorso valido anche per il mondo della comunicazione, dei media e del (nuovo, per l’appunto) giornalismo. Pensiamo alla notizia: qualche anno fa una notizia nuova poteva rimanere tale per giorni mentre adesso diventa vecchia nel giro di un’ora e questa è una conseguenza di come lavoriamo e di come viviamo, anche in virtù di meccanismi e ritmi imposti dai nuovi media. Tutto ciò porta ad alimentare un bisogno continuo che può orientare verso la verità ma che molto spesso, banalmente, finisce per diventare un’attitudine culturale che ci fa cercare in modo poco ponderato qualcosa di nuovo, che non è necessariamente migliore.

Altro esempio è relativo al modo di approcciarci al lavoro. L’innovazione tecnologica ha portato ad un modo di lavorare molto più flessibile, plastico, che può essere delocalizzato, ma per quanto mi riguarda è molto penalizzante perché rischia di danneggiare la capacità di approfondimento, fondamentale in qualsiasi lavoro. Studi recenti dimostrano che l’attenzione media su un contenuto web, post o articolo, è di otto secondi, dopo i quali l’attenzione va altrove e il nuovo diventa vecchio. Questo flusso eccessivamente rapido e incalzante rischia di penalizzare la qualità dei contenuti.

“Rischiamo di vivere in una grande stanza dei trofei in cui le nostre teste di animali imbalsamati sono bisogni dei quali non si è neppure percepita l’esigenza, tutti concentrati solo sul riempimento di una parete che ci faccia sentire importanti e accettati”, scrive nel suo saggio. Secondo lei questa continua esigenza di eccellere quanto e come influenza i giovani che si approcciano al mondo del lavoro?

I giovani ne vengono sicuramente influenzati e la competizione inizia sin dai tempi dell’università, ma li aiuta anche ad essere più performanti. Quello che succede oggi è che la competizione viene eccessivamente “stressata” in termini che hanno troppo a che fare con la forma e poco con la sostanza. La nostra riconoscibilità sociale è molto viziata da questa attitudine culturale, dobbiamo chiederci: una competizione su cosa è basata? Quali sono i risultati positivi di una competizione sana? Cos’è il successo? Dobbiamo capire la competizione e i suoi risultati su quali chiavi di lettura si basano. Oggi possiamo considerare l’iper-esposizione mediatica come chiave per misurare il successo?  L’esposizione dei miei trofei è veramente determinante per misurare il successo oppure c’è un atteggiamento troppo tribale e basico nel valutare questi elementi? Quello che espongo in una sala dei trofei decreta un mio successo o è un eccesso di forma che predomina su una sostanza penalizzata da questo modo di intendere e decodificare? È sicuramente un modo di decodificare basico, per questo mi riferisco alle tribù, dove il capo tribù o chi per lui tornava con la testa dell’animale e la portava come trofeo; però lì c’era un senso concreto perché l’animale era una minaccia. Dobbiamo dare ai ragazzi un metro di valutazione sano, la competizione va bene se basata sul raggiungimento di un obiettivo, ma deve passare attraverso le sue competenze deve rispecchiare una sua passione.

L’inversione dell’effetto Flynn che effetti avrà sul futuro della società e in particolare sul mondo del lavoro?

L’effetto Flynn inverso è un fenomeno abbastanza preoccupante in una società evoluta con questo livello di innovazione. Con nuovi strumenti a disposizione, si finisce per vedere una popolazione globale che perde il quoziente di intelligenza anche per via dell’ impoverimento del lessico. Lo vediamo nel ritorno al geroglifico, sia nell’espressione giornalistica che nella scrittura del messaggio. Ci spieghiamo così il trionfo dello slogan e del sensazionalismo e l’affermazione di questa modalità “geroglifica” di comunicare che suscita emozioni e spegne lo spirito critico.

Nel mondo del lavoro ciò rappresenta un grande rischio e le conseguenze di questo trend culturale sono individui più poveri intellettualmente. Di conseguenza dobbiamo proporre un atteggiamento più responsabile e critico, che si basi cioè sulla capacità di analisi del singolo:  d’altronde, un individuo consapevole è un lavoratore più responsabile. Dovremmo cercare di riportare in crescita l’andamento della curva dell’Effetto Flynn attraverso un atteggiamento critico, che faccia il più possibile leva sulla nostra capacità di ragionare rispetto che impressionare e sulla nostra capacità di analizzare piuttosto che di rimanere impressionati.

Quali sono gli elementi indispensabili, oggi, per costruire una comunicazione strategica idonea al mercato di riferimento?

Bisogna prima di tutto pensare a chi emette il messaggio – individuo, istituzione o azienda che sia – e passare poi ad una elaborazione e condivisione interna. Ricordo di non commettere un grave errore: non si comunica per comunicare, si comunica in base alle esigenze del mezzo. Si parte dagli obiettivi e da quelli si fa l’analisi del contesto. È necessario essere coscienti che l’attenzione oggi si cattura con strategie rapide, di impatto e basate sulla matrice video per poi capire l’algoritmo e i percorsi che traccia per sfruttarlo al meglio. 

Fondamentale è poi avere accesso ai dati relativi alla profilazione dell’utente, che consente di avere un’analisi sempre più puntuale. L’algoritmo ci porta nella bolla di quella persona che diventa il mercato di riferimento e dobbiamo puntare, a seconda del tipo di strategia e finalità, a rendere quella bolla sempre più comprensibile ad un pubblico ampio. Infine, fondamentale è l’integrazione di contenuti e di strumenti: la comunicazione integrata non è più un’opzione ma, anzi, per comunicare e pianificare in modo efficace è un vero e proprio obbligo. La presenza di un social media non è solo centrale nella fase di divulgazione ma anche in quella di elaborazione: un contenuto deve essere costruito, per quanto riguarda linguaggio e mezzo di diffusione, in base al al tipo di piattaforma sulla quale viene veicolato e al tipo di destinatario che deve raggiungere. In questo senso, la chiave vincente è un giusto mix tra prerogative della deontologia e obiettivi della nostra strategia.