«Quando si scrive una vacancy va specificato anche cosa si offre, non solo quello che viene richiesto, questo è un punto fondamentale del processo di onboarding. La risorsa, quando entra all’interno dell’azienda, deve sapere che c’è qualcuno a cui si può rivolgere, un piano di welfare, la possibilità di smart working o un supporto di tipo psicologico. Ci sarebbe bisogno di una persona pronta a sviluppare progetti di ascolto e fiducia su tutti i livelli, con competenze trasversali e una creatività oltremodo». A dirlo è Marcella Loporchio, esperta di comunicazione e Filosofa del lavoro, LinkedIn Top Voice per l’equità di genere e fondatrice dei Diversity Lab della 24 Ore Business School.
Secondo un recente sondaggio condotto dal McKinsey Health Institute su 30.000 dipendenti in 30 paesi, il 22% dei lavoratori a livello globale sperimenta sintomi di burnout. I giovani sono quelli colpiti in modo più significativo. In particolare, l’80% di dipendenti appartenenti a Gen Z e Millennial sarebbe pronto a lasciare il lavoro, a causa di una cultura aziendale tossica.
A questo contesto si aggiunge la difficoltà che le aziende hanno nel rappresentare e ascoltare le diversità dei dipendenti e delle dipendenti.
Se da un lato c’è chi si filma su Tik Tok riprendendo in diretta le proprie dimissioni, dall’altro c’è chi non ha il privilegio di poter scegliere se smettere di lavorare.
Di quali sono le difficoltà che si incontrano quando si lavora nelle risorse umane di un’azienda, ne abbiamo parlato con Marcella Loporchio, Filosofa del lavoro, LinkedIn Top Voice per l’equità di genere e fondatrice dei Diversity Lab della 24 Ore Busienss School.
Come hai iniziato il percorso che ti ha portata a svolgere una professione in cui valorizzi il lato umano nelle aziende?
Io credo che sia molto importante ripartire dalla capacità di ascolto. Quindi, rispondendo alla tua domanda potrei dire da sempre. Vent’anni fa parlavo di gender mainstreaming, lavoro e donne da tutelare. Mi piace dire che le parole hanno un senso e un significato e che quando riusciamo a comunicarlo e condividerlo con chi ci circonda, poi si genera qualcosa di veramente umano e bello.
Crei percorsi nelle aziende volti a valorizzare la diversità. Qual è il pensiero che c’è dietro? E qual è il riscontro delle persone che vi partecipano?
Il laboratorio della 24 Ore Business School è stata una sfida e una scommessa. L’obiettivo è quello di sensibilizzare sui temi della diversità i ragazzi e le ragazze che partecipano. Loro saranno i futuri manager e se non parte dal loro esempio e dal loro modo di essere, non cambieremo mai le cose. Il primo anno, quando hanno presentato il project work, c’erano alcuni ragazzi in aula e altri online, era il 2021. Ho coinvolto dieci esperti ai quali ho chiesto se volessero far parte della commissione, da Ferrovie dello Stato a Banca d’Italia, hanno detto tutti di sì. In questa occasione gli studenti hanno manifestato a pieno il loro essere. Da loro mi aspetto che sviluppino un grande senso critico.
Quali sono, secondo te, le professioni che ancora non esistono, ma di cui ci sarebbe bisogno per quanto riguarda l’inclusione nelle aziende?
Ci sarebbe bisogno di una persona pronta a sviluppare progetti di ascolto e fiducia su tutti i livelli, con competenze trasversali e una creatività oltremodo. Non sono necessari chissà quanti titoli, ma queste capacità. Se noi impariamo ad ascoltare, nel vero senso della parola e a metterci in gioco, si crea una rete di fiducia. Le aziende cambierebbero immediatamente. Parlo di una figura simile a una facilitatrice o un facilitatore di processi, anche se così è riduttivo.
Cosa pensi del processo di selezione e delle offerte di lavoro in Italia? In altri paesi, come il Regno Unito, per legge devono indicare anche le condizioni economiche e i benefit. In Italia si dà ancora più rilevanza a chi offre il lavoro rispetto a chi lo sta cercando.
Per l’ennesima volta l’Italia ha avuto una tirata di orecchie dall’Europa ed è così che è nata la certificazione per la parità di genere, altrimenti ci avrebbero tolto i soldi del PNRR. Inoltre, entro il 7 giugno 2026 le imprese dell’UE, Italia compresa, saranno tenute a fornire informazioni sulle retribuzioni e a intervenire se il divario retributivo di genere oltrepassa il 5%. Non sarà facile, dato che è ancora un argomento tabù nel nostro Paese, persino tra colleghi non ci confrontiamo e non ci diciamo quanto guadagniamo. Come possiamo arrivare a raggiungere un obiettivo del genere? Sono quasi certa di una cosa, anche se spero di sbagliarmi, l’Italia arriverà alla scadenza e chiederà una proroga. Non si tratta di un problema solo delle nuove generazioni, che giustamente vogliono sapere a cosa vanno incontro, ma è una questione che impatta anche le persone più grandi di età, che sono demotivate perché vedono che non cambia mai nulla e questo sta creando grossi problemi nelle aziende.
Oggi, se le aziende volessero dare una nuova immagine, dovrebbero partire da una survey interna in cui le persone, con l’anonimato, possano sentirsi libere di dire tutto ciò che vogliono. E poi andrebbe fatta un’analisi strutturata e trasparente di quello che si può fare e quello che non si può fare, stabilendo obiettivi e tempistiche. Quando si scrive una vacancy va specificato anche cosa si offre, non solo quello che viene richiesto, questo è un punto fondamentale del processo di onboarding. La risorsa deve sapere quando entra all’interno dell’azienda che c’è qualcuno a cui si può rivolgere, un piano di welfare, la possibilità di smart working o un supporto di tipo psicologico.
Vedi differenze nel lavorare con PMI e multinazionali in Italia?
Lavoro con aziende di qualsiasi tipologia. Alcune fanno una grande resistenza, sostenendo che si stanno esasperando le tematiche relative alla D&I. I problemi nel 90% dei casi in ogni contesto, comprese le aziende, nascono a causa di una cattiva comunicazione. Per comunicare è necessaria la circolarità: una persona parla, l’altra ascolta, interpreta e risponde Nelle aziende cerco di dare contezza dei numeri, portare degli esempi e far dialogare le diverse parti. Non penso sia corretto, invece, andare in un’unica direzione, come sta succedendo su LinkedIn ultimamente in cui si parla solo delle donne, esistono anche altri generi. Così il rischio è quello di creare un’ulteriore divisione e una grande resistenza da parte del genere maschile che si sente con il dito puntato contro a prescindere da tutto. Questo cosa comporta? Una mancanza di volontà di ascoltare come poter cambiare.
La frase che sento ripetere più spesso è “ma non si può più dire niente”. Poi si finisce per non vedere il problema e giustificare atteggiamenti sbagliati.
Si è concluso il 31 gennaio presso il Consiglio dei Ministri l’iter definitivo per l’istituzione del Garante Nazionale per i diritti delle persone con disabilità.
Va benissimo, ma mi chiedo se non sarà l’ennesima cosa per cui le aziende prenderanno una certificazione per dire che l’hanno fatto? Per poi fermarsi lì. Come mi disse una volta Riccardo Basso, Diversity Manager della Banca d’Italia, le etichette servono per far conoscere, però poi devono essere messe da parte per andare oltre.
Quali sono le difficoltà più grandi che hai incontrato nel tuo lavoro?
La tendenza a semplificare e il non riuscire a mettersi nei panni dell’altro rappresenta un grande ostacolo. Come il dire “si è sempre fatto così”. Anche dire alle aziende che bisogna assumere più donne per avere la parità, non viene visto positivamente da parte di molti. Il messaggio che passa è che poi certe cariche non vengono ricoperte per merito. Inoltre, si sta investendo sul conciliare tempi di vita e lavoro per i genitori, mentre questo aspetto non viene considerato per le persone che non hanno figli, finendo così per discriminarle.
Sul non avere figli hai scritto un libro che si chiama “Tu non puoi capire”.
Sì, perché me lo sento dire da una vita. Mi sento ripetere che non posso capire perché non sono madre. Questa è una tematica tosta. Ci sono tante persone nell’azienda e nella vita che non hanno figli, come ce ne sono tante altre che si prendono cura dei propri familiari. Ma se non hai figli, anche se l’azienda si è certificata per la parità di genere e ha messo a disposizione permessi e flessibilità per chi è genitore, tu finisce per fare il lavoro degli altri