Esiste una “filosofia degli influencer”? Lucrezia Ercoli dice la sua sul fenomeno Ferragni, analizzando l’importanza dell’influencer marketing e del potere della condivisione

Se esiste uno spirito del tempo, per usare il fortunato titolo del sociologo Edgar Morin, sicuramente Chiara Ferragni ne è una declinazione”. Scrive così, nel suo nuovo saggio “Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer”, Lucrezia Ercoli, direttrice artistica di “Popsophia”, festival internazionale di filosofia del contemporaneo, docente di Storia dello spettacolo e Filosofia del teatro presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

Nel saggio edito da Il Melangolo, Lucrezia Ercoli presenta la nota influencer milanese come la perfetta incarnazione di un romanzo di formazione per nuove generazioni, immerso completamente nella cultura di massa e nel sistema dei consumi.

Insomma, fenomeno passeggero o storia a cui ispirarsi? Quali sono le contraddizioni del lavoro da influencer? Il potere della condivisione può avere risvolti negativi? Parola a Lucrezia Ercoli…

Secondo la Instagram Rich List 2020 compilata dall’agenzia inglese di digital marketing Hopper HQ ogni post di Chiara Ferragni ha un valore stimato di circa 59.700 dollari. Ha ragione chi pensa che gli influencer siano ingiustamente strapagati o bisogna iniziare a pensare a questo come un lavoro cruciale nelle nuove strategie di marketing?

Se le aziende strapagano gli influencer senza un rientro in termini di visibilità e di fatturato forse stanno facendo male il loro lavoro. I dati dell’effetto Ferragni sulle vendite, per il momento, sembrano dimostrare il contrario. Ma al di là delle analisi di mercato, quello che mi interessa è inquadrare il fenomeno in un quadro più ampio. Gli influencer non sono solo fenomeni di marketing, non hanno solo il potere di orientare i consumi, ma anche il potere di modificare i comportamenti e le opinioni dei loro followers.

Nei suoi post la Ferragni non pubblicizza solo i prodotti ma racconta delle storie. Nel suo saggio parla del legame che c’è tra marketing e storytelling. Come è cambiato lo storytelling negli ultimi anni e quanto è importante oggi saper raccontare una storia?

L’arte di raccontare storie sembrava destinata a eclissarsi nel mondo contemporaneo, invece le nuove tecnologie hanno inaugurato quello che è stato definito “storytelling revival”. Raccontare è la più potente arma di persuasione di massa, dalla pubblicità alla politica, il braccio armato di un’industria culturale e dei consumi che ha bisogno di produrre emozioni inserendole all’interno di un’affascinante favola collettiva. Siamo immersi nelle storie e siamo chiamati a raccontarci quotidianamente: la nostra stessa identità è una costruzione narrativa permanente. La Ferragni, in questo caso, è una lente di ingrandimento di ciò che siamo: ci raccontiamo sui social non solo per segnalare la nostra esistenza, ma anche per ottenere una gratificazione, per ingenerare ammirazione (e magari anche un po’ di invidia).

Lucrezia Ercoli

Secondo lei, Lucrezia Ercoli, è possibile coinvolgere i giovani nel mondo dell’arte e della filosofia e promuovere il panorama culturale italiano approfittando delle opportunità create dai nuovi media digitali e utilizzando i personaggi che invadono lo spazio pubblico contemporaneo?

La copertina del libro con la Venere di Botticelli fa proprio riferimento a questa possibilità. Dopo che il profilo ufficiale della Galleria degli Uffizi ha pubblicato la foto della Ferragni in posa davanti alla Venere si è scatenata una tempesta di commenti feroci scissi tra accusatori indignati e difensori convinti. E io non posso che essere d’accordo con il direttore degli Uffizi, che nel difendere la Ferragni ha usato la categoria del “puzzalnasismo”, stigmatizzando una cultura autoreferenziale che non ha alcuna intenzione di dialogare con i cambiamenti dell’immaginario e di utilizzare i nuovi strumenti del digitale. I cambiamenti non vanno demonizzati, spesso nascondono conseguenze positive e rivoluzionarie. Io dirigo un festival che si chiama Popsophia, un ossimoro che unisce filosofia e cultura pop: credo che le contaminazioni tra mondi lontani siano un’enorme opportunità.

Durante l’emergenza Covid Chiara Ferragni lancia insieme al marito Fedez una campagna di raccolta fondi destinata all’incremento dei posti letto del reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano. La campagna diventa la più grande raccolta fondi d’Europa realizzata su Gofoundme, si arriva a totalizzare 3 milioni di euro in sole 24 ore con donazioni da 92 paesi diversi. Questo è solo uno dei tanti frutti del famoso “potere della condivisione” di cui tanto si parla. Quali i vantaggi e quali gli svantaggi?

Credo che per valutare il “potere della condivisione” sia necessario uscire dal cono d’ombra del moralismo deontologico sempre critico e distruttivo. A volte bisogna valutare l’azione dell’influencer a partire dalle conseguenze e non solo dalle intenzioni (che, molto spesso quando si parla di solidarietà, sono tutt’altro che altruiste). Faccio un esempio recente. Qualche giorno fa la Ferragni ha deciso di utilizzare il suo potere mediatico per parlare di violenza sulle donne. In un lungo video di dieci minuti – in cui con termini convincenti e documentati, ma espressi con un linguaggio immediato e semplice – parla di victim blaming, slut shaming, revenge porn, femminicidio, cultura patriarcale e della necessità di una rete di solidarietà femminile. Il tutto a una platea di milioni di giovani che molto probabilmente non ne avevano mai sentito parlare di questo problema in questi termini. Credo sia significativo che tantissime influencer femministe – che parlano di questi temi in una bolla ristretta e autoreferenziale, lontanissima dal “modello Ferragni” – abbiamo ricondiviso e apprezzato questa presa di posizione. Se il “potere della condivisione” della Ferragni ha conseguenze positive (oltre alla crescita del suo fatturato) perché non riconoscerlo?  

Un influencer senza followers non può esistere. È possibile analizzare filosoficamente i meccanismi che legano i followers agli influencer?

Nella mia analisi ho cercato di liberarmi dagli stilemi giudicanti della critica apocalittica che considera gli influencer soltanto un segno della decadenza dei tempi. Proprio perché sono convinta che sia molto interessante analizzare filosoficamente i meccanismi di imitazione e rispecchiamento che legano gli influencer al loro pubblico. D’altronde l’imitazione, lo ricordava già Aristotele nella sua Poetica, è un veicolo di piacere e conoscenza, una caratteristica ineliminabile, fisiologica e necessaria del comportamento umano. Non si tratta di un fenomeno nuovo: tutte le generazioni hanno sognato di assomigliare ai loro idoli, hanno cercato modelli a cui ispirarsi. L’influencer, però, dà vita a un modello di identificazione che nasce da un patto fiduciario: ti seguo perché mi fido. Se si rompe questa “credibilità” del messaggio, si spezza l’incantesimo.

Influencer marketing: oggi per le aziende è un must. Quali sono gli errori da non fare in termini di immaginario e filosofia di business? Quale la tendenza di una comunicazione contemporanea fra rifiuto del bodyshaming, attenzione LGBTQ+ dei grandi brand e sostenibilità ambientale?

Non c’è influencer marketing senza una sentiment analysis che studia statisticamente le opinioni e le emozioni espresse online e, tramite questo monitoraggio continuo del sentire comune, consente ai brand di sintonizzarsi sulle sequenze giuste per toccare le corde emotive del pubblico e per evitare gli argomenti scomodi. Tutti provano a uniformarsi all’idem sentire del politicamente corretto, ma le reazioni del pubblico sono inimmaginabili: c’è sempre un margine di rischio e la cronaca recente ci insegna che l’indignazione virale può creare danni di immagine enormi.