La ricerca di Sae Institute sul gender gap è iniziato durante la pandemia. La musica live si è fermata, facendo detonare i problemi del settore. Tre anni dopo le donne sono ancora poche: l’intervista ad Alessandra Micalizzi, psicologa e docente

Poche, precarie e invisibili. Il tema di genere nel lavoro abbraccia parole come Gender Pay Gap, Pinkwashing, #MeeToo. La pandemia, con la protesta dei 500 bauli in Piazza Duomo a Milano, ha acceso i riflettori sulle disparità nel mondo dello spettacolo, oggi non ancora risolte. La ricerca di Sae Institute Milano “Women in Music” se ne occupa da tre anni. L’ultima edizione ha studiato le immagini pubblicate sui social di 10 artiste (Elettra Lamborghini, Emma, Alessandra Amoroso, Elodie, Annalisa, Francesca Michielin, Madame, Levante, Gaia e Victoria dei Måneskin) tra marzo e ottobre 2022, per un totale di mille foto, analizzando il corpo, la postura e il contesto.

Il progetto ha dato vita così alla collettanea “Poche. La questione di genere nell’industria culturale italiana”: è open source online ma può essere acquistata in forma cartacea per sostenere la creazione di un fondo di ricerca SAE e continuare a studiare la disparità. L’accademia, fondata in Australia nel 1976 e presente in 28 Paesi, ha esaminato anche le difficoltà affrontate dalle sue studentesse. A darci un quadro completo sull’argomento è un’esperta sul campo, la curatrice del progetto “Poche” Alessandra Micalizzi, psicologa e docente.

A che punto è il gender gap nel mondo del lavoro, della cultura e della musica?

Mi piacerebbe dire che la situazione fosse più rosea di quella che poi abbiamo registrato nelle varie rilevazioni. Premetto che il nostro è sempre stato uno sguardo in profondità, quindi qualitativo, non quantitativo. Non siamo andati a mappare numericamente perché quando abbiamo cominciato il nostro lavoro, cioè in pieno periodo pandemico, ci siamo trovati di fronte a una situazione molto frammentaria. Iniziando la nostra osservazione del mondo della musica, per poi estenderla nell’ultimo lavoro anche ad altri ambiti dell’industria culturale, ci siamo accorti proprio di come le rilevazioni non fossero sistematiche. C’era un problema nel riuscire a recuperare queste informazioni perché ci confrontiamo con un settore molto magmatico.

L’industria musicale, ma credo che questa idea si possa estendere a tutto il mondo culturale, è come il mondo del lavoro: poco organizzata, ci sono poche situazioni stabili o stabilizzate. Nella maggior parte dei casi, soprattutto in ambito artistico, c’è principalmente un lavoro libero professionale, spesso con poca stabilità e con poche regole. Prevale anche tanto “il nero”, soprattutto nelle fasi iniziali della carriera o la gratuità, addirittura. Il Gender Gap quindi sussiste e affonda le sue radici ormai secolari in un passato remoto, perché cultura vuol dire potere.

Com’è nato?

È stata un’estromissione “tecnica” che poi si è riflessa in tutti gli ambiti della cultura: inizialmente nell’istruzione, successivamente nelle arti, per arrivare naturalmente alla musica e al cinema. Nell’ultima rilevazione di Sae Institute abbiamo incluso nell’osservazione il cinema, la musica, la televisione e l’industria videoludica che tra le tre è la più recente. Qui sicuramente c’è un dibattito meno maturo, di conseguenza anche la visibilità del tema è minore e le azioni che si stanno portando avanti sono a uno stato prodromico rispetto al cinema. Lì a partire dal “Mee too”, ma ancora prima, la riflessione sulla rapporto tra attori e attrici e in generale appunto la produzione cinematografica al maschile o al femminile è un pochettino più avanti sul piano della maggiore visibilità del dibattito.

Quante sono le donne oggi nell’industria culturale e come mai sono ancora “poche”?

Riguardo alla musica, noi abbiamo i dati delle rilevazioni di carattere internazionale. Si possono marcare tre ambiti. In quello delle artiste, delle musiciste e di chi fa performance, nel caso dell’Italia, troviamo una discrepanza numerica di un terzo di donne contro due terzi di uomini. Nell’ambito del backstage, dove ci sono soprattutto le figure più tecniche e la scrittura, le percentuali si contraggono. Nell’audio engineering siamo intorno al 3% mentre nell’autorialità, dai testi alla composizione, siamo all’8%. Nel management l’industria ha mostrato maturità e attenzione. Qui c’è quasi la parità numerica del 50% ma con una sorta di segregazione in cui le donne sono prevalentemente concentrate in alcuni reparti come quello della comunicazione e magari non nella direzione artistica.

È una segregazione verticale in cui le donne possono raggiungere solo un certo livello della carriera, c’è un tetto di cristallo complicato da superare. Nel periodo pandemico si è sollevato il tema dell’industria musicale, perché coloro che lavoravano in questo settore erano andati con i loro case neri in Piazza Duomo. Volevano dire: così sta morendo l’industria, soprattutto quella del live che alimenta molto le entrate in generale e in particolare la parte destrutturata del mercato degli emergenti, degli artisti che lavorano nel sottobosco e che magari non raggiungono la notorietà. Hanno il loro giro, riescono a sopravvivere e a vivere di musica, ma è un sistema molto precario. La pandemia aveva acceso i riflettori.

Poi cos’è successo?

Contemporaneamente si parlava di donne e giovani, cioè di quelle figure che nel mondo del lavoro erano più precarie. A causa della loro instabilità contrattuale, avevano subito la fuoriuscita dal mercato del lavoro e la sospensione delle loro prestazioni. Così queste due dimensioni, le donne e la musica, hanno fatto cortocircuito. Soprattutto nella nostra prima rilevazione è emerso tanto il tema del precariato e della difficoltà del poter vivere di musica. Abbiamo condotto 40 interviste, di cui 11 rivolte a uomini. Le donne che lavorano nell’industria hanno faticato cinque volte di più per poter riuscire a restare all’interno di questo ambito.

Hanno sempre sottolineato nelle interviste di Sae Institute anche la difficoltà ad una sorta di riconoscimento della possibilità di essere pagate. C’è una cosa che mi aveva colpito molto: dicevano di essere delegittimate nella possibilità di parlare di denaro. Di fronte alla predominanza maschile, spesso le musiciste e le manager non sono riconosciute nel loro ruolo. Ci hanno detto: quando si tratta di denaro è come se diventassimo trasparenti e l’interlocutore non possiamo essere noi. Non c’è solo il Gender Pay Gap.

Quanto tempo servirà prima di vedere cambiamenti concreti?

Pare che quel tempo sia stato quantificato in 136 anni, ma io sono ottimista, ci sono le premesse per una trasformazione vera e propria del sistema. Naturalmente, ecco, o succede la rivoluzione oppure questi cambiamenti richiedono necessariamente del tempo. Uno dei cambiamenti importanti che si sta verificando nell’industria musicale è il ricambio generazionale. Quando abbiamo fatto le nostre interviste, le donne ci sottolineavano che si tratta di un’industria vecchia, soprattutto in Italia. I manager e i direttori artistici sono molto maturi nelle principali major, quindi tendono a riproporre il modello precedente.

Invece naturalmente le generazioni che stanno arrivando e che si affermano a prescindere dall’essere uomini o donne sicuramente hanno sensibilità diverse intorno a questi temi. Quindi il cambio generazionale ai vertici potrebbe essere un acceleratore. Inoltre negli ultimi 3 anni si rileva una volontà maggiore di rendere visibile questi temi e di parlarne. Certo, questo non coincide necessariamente con un cambiamento ma cominciare a creare consapevolezza è il primo passo per cambiare poi le cose. Però ci sono due controtendenze che mi preoccupano.

Quali sono?

Una è il cambiamento formale, il cosiddetto Pinkwashing. Si cerca di camuffare sotto scelte di parità azioni che in realtà sono puramente marchettare o che sono finalizzate a rispondere alla forma e non alla sostanza. Rischiano di confermare gli stereotipi esistenti e di portare alla creazione di prodotti artistici culturali che non sono all’altezza delle aspettative. Inoltre c’è una certa corrente soprattutto maschile che si sente irritata dall’idea di dover fare sempre questa riflessione intorno al genere. Insomma, si sono un po’ stufati di sentir parlare di disparità di genere. La vivono quasi come una condizione di privilegio che rischia di danneggiare la sfera maschile.

Questa corrente include alcune donne. Abbiamo visto anche ad alti vertici figure importanti che hanno chiesto di essere definite con ruoli maschili. Il loro tentativo è dire “posso aderire a un modello maschile perché ne ho le le capacità, lasciate fuori la questione di genere”. Queste irritazioni sono preoccupanti: diventano zavorre del cambiamento e rischiano di portare quell’accelerazione a un rallentamento.

Alla fine i social, secondo lo studio di Sae Institute, nel posizionamento delle artiste svolgono un ruolo positivo o finiscono per “svilire” l’arte, rafforzando lo stereotipo di cantante-vetrina?

Il tentativo della nostra ultima ricerca, concentrata soprattutto sull’auto-rappresentazione delle artiste sui social e su Instagram in particolare, voleva riflettere sull’uso del corpo e sugli effetti sulle generazioni che abitano quegli ambienti. Abbiamo notato che si mantiene la solita narrazione retorica del corpo, del corpo esposto e sessualizzato. Le ragazze che abbiamo intervistato intendono i post come forma di espressione dell’emancipazione femminile, non come forma di cristallizzazione di vecchi modelli e questo lascia sperare.

Però i social hanno un ruolo importantissimo perché hanno un potere di diffusione elevato e sono molto usati dalle nuove generazioni. Le artiste ma anche gli artisti – insomma tutto il mondo della produzione culturale – hanno una grandissima responsabilità verso i modelli che veicola, perché quelle azioni diventano la base per la costruzione di un’identità e un immaginario. Abbiamo intervistato giovani tra i 18 e i 25 anni. Negli occhi delle ragazze c’era una propensione diversa verso quella retorica del corpo. I ragazzi dicevano “Ok, però se se ti poni in questo modo ti devi aspettare che poi vieni giudicata per quello, anche se lo fai per motivi di marketing”, confermando una lettura ancora stereotipata.

Quali difficoltà incontrano gli studenti di Sae Institute, e le studentesse in particolare, nell’accesso al mondo del lavoro, soprattutto sul piano del genere?

Le persone che seguono i nostri percorsi si formano in produzione audio e cinetelevisiva. Alcuni di questi ruoli dell’industria che loro possono ricoprire sono anche dietro le quinte, quindi ad esempio i cameraman. Questa parola tra l’altro include proprio “man” e non “woman”, quindi ci dà l’idea di chi può farlo. Poi c’è il fonico delle produzioni audio: “fonica” lo senti solo come aggettivo, non come figura professionale. Quindi la difficoltà è coprire ruoli tipicamente maschili. Come dicevo prima, il 97% dei sound engineer è uomo. Anche le studentesse di Sae Institute, nel momento in cui si trovano ad occupare quei territori, si scontrano con una preponderanza maschile che si riflette poi nelle dinamiche lavorative.

Nel nostro primo campione avevamo delle figure junior che stavano completando proprio il percorso nell’audio e ci descrivevano dinamiche di genere già in classe. Sae Institute Milano ha il 5-8% di studentesse. Le ragazze ci dicevano: “Nel gruppo sono tutti maschi, nel momento in cui io sostengo un’opinione differente che motivo dal punto di vista tecnico, mi viene detto che sono emotiva, che mi arrabbio e che ho le mie cose”. L’uomo invece viene valutato come competente o no e non come emotivo o stralunato.

C’è anche una forma di auto-esclusione. Alcune di loro, soprattutto le figure junior, hanno abbandonato l’idea del live; succedeva che quando si trattava di montare la scena si sentissero dire “No, tu no, perché non c’è la fai a portare i cavi”. C’è una dimensione fisica del lavoro che porta a scegliere figure maschili o a mettere in atto strategie di maschilismo benevolo. Della serie “Non ti preoccupare, resta seduta che ci penso io, perché tu forse non ne sei capace, non hai abbastanza forza”.