Diminuzione dei salari, aumento delle ore di lavoro, una produzione incessante e soprattutto nessuno spreco di tempo, perché non c’è vita oltre il lavoro. Nasce da qui il fenomeno delle “Grandi Dimissioni”, quella tendenza che vede i dipendenti dimettersi volontariamente in massa dai posti di lavoro, perché vittime di burnout, estrema stanchezza o alienazione. Lo descrive, nel suo libro, Francesca Coin, sociologa che si occupa di lavoro e disuguaglianze sociali. Un fenomeno che è sintomo del profondo cambiamento che sta vivendo il mercato del lavoro e che non si può ignorare, se si vuole comprendere il futuro che ci aspetta.
Francesca, quando e come nasce l’idea del tuo libro “Le Grandi Dimissioni”?
Il libro in sé è nato in tempi recenti, ma il mio interesse per il fenomeno del “quitting” è nato una decina di anni fa, quando nel mio settore, che è quello accademico, hanno iniziato a fioccare lettere di dimissioni che sembravano una sorta di letteratura: persone, che fino a quel momento non avevano mai lamentato nulla, hanno iniziato ad andare via, rendendo pubbliche delle lunghe lettere, che erano dei veri e propri sfoghi. Al loro interno vi era un aspetto di denuncia, e uno più soggettivo, quasi di liberazione. E così ho iniziato a chiedermi cosa significasse licenziarsi, abbandonare: di fatto un atto di rinuncia, ma anche di sfida all’ordine costituito. La cosa che mi sorprendeva era questa idea di sentirsi liberi, che era in parte consolatoria e in parte sintomo di una identificazione con il lavoro, che forse si stava cominciando a sgretolare.
Quindi quando sono stati pubblicati i primi articoli negli Stati Uniti sul tema delle dimissioni mi sono incuriosita e sono andata a vedere cosa stesse accadendo nel resto del mondo, e ovviamente anche in Italia. E lì ho capito che era tempo di scrivere un libro, perché il dibattito nel nostro Paese mi sembrava insufficiente, questi fenomeni venivano descritti in modo estemporaneo, in maniera individuale, senza un contesto di riferimento: non veniva evidenziato quanto l’epoca che viviamo, che è costellata di crisi, stia stimolando sempre di più una messa in crisi anche del nostro modo di vivere, e di lavorare.
Non si rischia che il fenomeno delle dimissioni si scontri con la necessità di una lotta sindacale utile a far sì che ci sia un cambiamento strutturale per i lavoratori?
Dipende. Partendo dal concetto di rinuncia, mi sono chiesta chi si dimette a cosa scelga di rinunciare, e ho realizzato che si tratta principalmente degli aspetti tossici ma non dei valori più profondi del lavoro. Credo che le dimissioni siano il sintomo anche di una difficoltà di quelle che sono le lotte organizzate: ci sono contesti in cui i processi di sindacalizzazione del lavoro non sono organizzati e in cui c’è stata una violenza sindacale molto forte, che in molti casi abbiamo sottovalutato. In questi anni non si è discusso di tutta la cassetta degli attrezzi antisindacale, delle varie forme di vessazione e minaccia, e di ricatto: “se mi lamento mi devo cercare un altro lavoro”. Detto questo: non penso che le dimissioni siano la soluzione, ma sono il sintomo di un malessere che deve essere analizzato e che forse richiede anche una diversa riorganizzazione.
Parli molto della produzione, anche giornalistica, negli Stati Uniti. In Italia la situazione è invece piuttosto diversa, sia per quanto riguarda la consapevolezza di questo tema, ma anche per eventuali prese di posizione da parte del mondo imprenditoriale, politico e culturale. Si cerca di soffocarlo questo fenomeno?
Assolutamente sì. Ho vissuto per molto tempo negli Stati Uniti, ed è per questo che ne ho scritto tanto, e mi rendo conto che il livello di precarietà estrema, e di malessere estremo, del lavoro è ampiamente sottovalutato qui in Italia. I numeri altissimi delle dimissioni volontarie per me sin da subito non hanno mai avuto a che fare con la voglia di cambiamento, che è propria, come si dice spesso, di chi se la può permettere, ma con il fatto che ci sono livelli di sfruttamento della forza lavoro davvero altissimi. Il dibattito negli Usa è sicuramente più esplicito, oltre al fatto che vi è un mercato del lavoro molto più dinamico, basti pensare che nel ’21-’22 c’erano due posti di lavoro disponibili per ogni disoccupato.
In Italia vi è un tasso di disoccupazione molto più alto, però ci sono interi settori con carenza di personale, quindi la domanda che ci si pone spontaneamente è: come mai non si trovano lavoratori? Questo inevitabilmente ci rimanda al tema dei salari e delle condizioni di lavoro. Un tema che hanno tentato di affondare attraverso un dibattito caricaturale in cui il lavoro povero si dice che non esiste, o viene considerato quasi come una forma di emancipazione (basti pensare a come la stampa parla dei rider ricchi “che guadagnano più degli operai”, o che sono fortunati “perché possono lavorare e andare in bici”), di fatto una narrazione ridicola. Ed è per questo che bisogna ricontestualizzare questo dibattito, anche perché non vi è una contro narrazione nel discorso pubblico. Le crisi che stiamo vivendo, il governo di destra e l’inflazione avallano questo racconto.
Si sta parlando di salario minimo, ma si dovrebbe partire dall’attuazione dei contratti di lavoro già esistenti, gli stessi contratti che vanno però ridiscussi. Il dibattito quindi c’è, ma è sufficiente o rischiamo che ci sia un effetto resilienza come è accaduto per tanti temi emersi con la pandemia? L’Italia tornerà ad essere com’era prima dimenticandosi di tutto questo?
Il salario minimo è sicuramente urgente, soprattutto per quei 4-5 milioni di lavoratori che prendono meno di 9 euro l’ora, e mi preme ricordare che ci sono contratti che consentono una retribuzione così bassa, però non è l’unico tema da affrontare. Se guardiamo alle cause delle “grandi dimissioni” ci sono, tra le varie cose, turni troppo lunghi, organici ridotto all’osso per ridurre il costo del lavoro. Quindi in termini di cose da fare la lista è lunga: aumentare gli organici, consentire il controllo dei turni, ridiscutere le chiusure domenicali nel commercio e nella grande distribuzione, cosa che i sindacati chiedono da tempo, un welfare che dia libertà alle donne di lavorare senza essere vittime della solita scelta tra la famiglia e il lavoro (visto che purtroppo il lavoro di cura è ancora, troppo, a carico delle donne), e ancora un congedo parentale obbligatorio.
Si tratta di step fondamentali per riformare il mercato del lavoro e mettere le persone nelle condizioni di lavorare. Di fatto se fossero rispettati i contratti, sarebbe un buon punto di partenza, ma sappiamo che non accade: ci sono pratiche illegali da parte delle aziende, a partire dal mancato rispetto dei contratti collettivi. Vi è un dumping contrattuale per pagare meno il lavoro che ha conseguenze su ogni aspetto della vita lavorativa. E tutti questi sono punti da aggredire contemporaneamente per migliorare le condizioni di lavoro, purtroppo però il governo va in una direzione diametralmente opposta, nel senso che l’intento, come abbiamo visto con il reddito di cittadinanza, è mettere tutti al lavoro, far lavorare gli occupabili.
Le aziende sono pronte a riformare l’identità lavorativa dei dipendenti, a partire dalla gestione delle risorse umane, del tempo e del lavoro stesso? Parliamo di settimana corta, maggiore flessibilità, smart working…
Casi positivi ce ne sono stati, non necessariamente in Italia, ma imprenditori che sono andati incontro alle esigenze dei dipendenti soprattutto dal punto di vista del tempo ce ne sono. La settimana corta a parità di retribuzione mi sembra un concetto ancora molto distante, e la cultura delle risorse umane, per quanto delicata e controversa, in alcune aziende non c’è nemmeno, basti pensare ad alcune micro imprese italiane in cui il personale è ridotto e in cui è presente la figura del “padrone” di cui si parlava tanto negli anni ’70-’80. In Italia c’è ancora l’idea per cui per essere competitivi bisogna ridurre il costo del lavoro, anche nel Def dell’attuale governo la moderazione salariale rimane una priorità.
Si parla molto di femminismo, ma di fatto l’attuazione di politiche lavorative inclusive risulta difficile sia perché viviamo in una società di stampo patriarcale sia perché le aziende più che favorire l’entrata delle donne nel mondo del lavoro ne agevolano l’uscita. Ci verrà mai permesso di emanciparci dal ruolo di api operaie?
Mi auguro di sì. Il tema delle donne nel mondo del lavoro in Italia è ancora legato a una cultura, che prescinde dalla questione “maternità”, che le considera un’eccezione, un problema, un oggetto esotico. La donna non è identificata nella figura del lavoratore classico che è ancora immaginata come maschile. Però devo ammettere che i movimenti femministi e le nuove generazioni su questo stanno lavorando tantissimo, anche in modo efficace, quindi per certi versi anche la questione delle dimissioni è interessante: se da un lato è vero che vengono sempre messe alle strette perché è impossibile essere madri, figlie e lavoratrici a tempo pieno, c’è una consapevolezza che quello non è nemmeno più ciò che vogliono.
Dobbiamo riappropriarci delle nostre vite, di noi stessi, ma soprattutto del nostro tempo.
Il tempo di vita è diventato oggetto di profonde riflessioni, e questo è importante. Perché il tempo di vita è stretto, è poco. Rispetto a due decenni fa, quando non c’era la tecnologia, il tempo libero esisteva perché il lavoro era marginale, ma soprattutto non poteva essere presente ovunque, invece adesso il lavoro è dappertutto. E non è un bene. Il tema del tempo libero è centrale, anche se può sembrare secondario, perché di fatto oggi non esiste più, e molto dell’esaurimento, del burnout, della stanchezza, che sperimentiamo e vediamo intorno a noi, ha a che fare col fatto che c’è bisogno di tempo. A fare da sfondo vi è la crisi climatica che rende il futuro ancora più incerto, anche il nostro pianeta ha bisogno di tempo, e questa modalità produttiva non è più sostenibile.