Le nuove generazioni chiedono sostenibilità e spazi per la vita privata: così il confronto tra giovani e anziani si gioca sui temi e sui modelli di lavoro. L’intervista al dg di Fòrema Matteo Sinigaglia
Nelle imprese italiane c’è una “guerra” tra giovani e anziani? Sì ma non tanto per l’età, più sui servizi e la sostenibilità, uno dei driver per attrarre risorse e talenti. Oltre alle difficoltà di comunicazione, infatti oggi a tutti i livelli c’è la richiesta di equilibrio vita-lavoro, flessibilità, programmi di crescita e alto coinvolgimento.
Intanto in diverse società al timone ci sono ancora figure chiave nate tra gli anni 40 e 50, mentre i ventenni bussano alla porta con i loro smartphone in mano. Prima del Covid probabilmente la migliore offerta che un lavoratore poteva ricevere era il contratto a tempo indeterminato. Adesso la situazione è cambiata radicalmente.
Dopo le grandi dimissioni e il quiet quitting, è iniziata la fase del “Diamo una chance all’azienda”, ci dice Matteo Sinigaglia, direttore generale di Fòrema, che dal 1983 si occupa di formazione e consulenza aziendale. Lui ha parlato della necessaria e difficile “staffetta generazionale” anche di recente alla 18esima “Fiera delle parole” a Padova.
“Il tema delle risorse e del reclutamento è oggi il primo topic per le aziende: cercano di compiere nuovi progetti, percorsi e sforzi proprio per soddisfare l’esigenza di trovare persone a tutti i livelli”, ci spiega Sinigaglia in questa intervista.
C’è davvero una guerra tra giovani e anziani nelle aziende italiane?
Fino a qualche tempo fa c’era evidentemente un tema di continuità tra senior, prima e seconda generazione o generazione entrante. D’altra parte spesso i fondatori stanno magari più dalla parte dei nonni o addirittura in epoche antecedenti: la generazione reggente quindi ha sicuramente un’età diversa.
Dal nostro osservatorio vediamo che ora il meccanismo è un po’ cambiato: il grande tema del passaggio generazionale all’interno delle imprese prende forma rispetto a quello che le aziende fanno. C’è una nuova riproposizione di modello di business: non si investe più solamente nei prodotti ma si va anche verso una servitizzazione. un concetto portato avanti spesso e volentieri dai più giovani.
Ci sono dati a disposizione su questi aspetti?
In una survey sulla sostenibilità che abbiamo condotto nella primavera 2022 su un campione particolarmente rappresentativo, è emerso che di fatto il 37% delle imprese intervistate – laddove ci sia un passaggio generazionale – trova difficoltà soprattutto nell’implementazione di un nuovo modello di business, di nuovi prodotti, di nuovi servizi.
Qual è il tema che divide maggiormente le generazioni?
Non è tanto una questione legata al digitale o alla tecnologia: anche le generazioni un po’ più attempate hanno ben compreso che questo è un argomento ineludibile. Gli anni di industria 4.0 hanno creato una cultura del cambiamento in questo senso. C’è un altro argomento che emerge in modo preponderante: quello della sostenibilità. Oggi tutti ne parlano, tra l’altro c’è un tema grandissimo di greenwashing, maquillage… Le generazioni più giovani però stanno evidentemente lavorando su questo, mentre le generazioni che sono già alla guida delle aziende si concentrano più sulle risposte alle esigenze del mercato.
Spesso quindi bisogna investire in sostenibilità per riuscire ad attirare talenti, risorse e persone qualificate che ti permettano in buona sostanza di raccontare una storia all’interno dell’azienda. Le imprese adesso sono tutte e a tutti i livelli a caccia di risorse e questo diventa un driver molto importante, assolutamente determinante. Quindi il conflitto generazionale non è più una guerra come avveniva in tempi passati ma è sicuramente un cammino nell’ottica del riposizionamento del business dell’azienda.
La staffetta tra giovani e anziani all’interno dei luoghi di lavoro è possibile? Come si realizza?
Noi studiamo per le imprese che intendono avviare un percorso di questo tipo. Si parte dalle basi dell’azienda: l’esercizio da fare, anche se può sembrare di natura teoretica, è comprendere il reale valore dell’impresa, quindi far emergere le idee che l’hanno sostenuta. Spesso si dà per scontato che l’azienda abbia in testa il profitto, com’è giusto e doveroso che sia.
In realtà ritroviamo un grande radicamento nei territori, soprattutto quelli più periferici, per cui non di rado individuiamo imprese, aziende e imprenditori che sono all’interno di tutta una serie di attività associative che magari hanno a che fare poco con le imprese e più con il mondo del terzo settore, delle cooperative o a supporto di attività sportive, Pro Loco locali…
Questo “attaccamento” cosa comporta?
Vuol dire avere un radicamento e dei valori profondi. Occorre cercare di portare in emersione questi valori, in un’ottica di visione e di missione. Quando si parla di vision e mission si fa un grande calderone, lo notiamo all’interno delle aziende. Non si tratta tanto della vision dell’impresa, perché tutti vogliono essere i leader del proprio settore di riferimento, questo lo diamo per scontato. Avere visione significa invece prevedere come andrà il settore di riferimento e quale sarà la parabola del proprio segmento di mercato.
Questo serve poi a capire se, oltre ai prodotti, l’azienda possa investire in nuove tecnologie e servizi. Quindi, con la mission, bisogna sostenere esattamente ciò che l’azienda può fare per quel trend di mercato. Si cerca di leggere una tendenza generale per creare un cono di luce specifico sul cuore dell’azienda. Ad un certo punto la governance, tipicamente, o la famiglia proprietaria si ritrova a parlare del modello di business, non solo per il presente ma anche per il futuro.
Una volta individuato il modello di business, tutto questo dovrebbe aiutare gli “anziani” anche a individuare le figure nuove e più giovani da coinvolgere?
Sì, noi cerchiamo di stare distanti da fatti di famiglia, contratti, deleghe. Vedo che il passaggio generazionale fatto nello studio legale crea sempre tante zone di grigio e ombra. Sicuramente il modello della 231 è entrato in modo forte anche nelle piccole e medie imprese e questo ha permesso deleghe e poteri più distribuiti. Banalmente in tante pmi non esiste nemmeno l’organigramma: in questo modo in una serie di funzioni e ruoli chi è più giovane può ricavarsi uno spazio. Però in realtà sono tutti strumenti che devono essere utili per una strategia o una visione più grande. Ecco perché parliamo di partire proprio dalla collocazione futura dell’azienda nel mercato che si persegue.
Ci sono difficoltà dal punto di vista delle esigenze dei giovani rispetto al mondo del lavoro e degli anziani? Cosa chiedono, oggi e dopo una pandemia, le nuove generazioni?
Devo dire la verità. Non c’è imprenditore o manager che non abbia una difficoltà di linguaggio nei confronti dei giovani: parliamo della Generazione Z e degli under 30, sicuramente molto capaci. Poi qui bisogna fare un distinguo, perché essere un nativo digitale ed essere abile digitalmente non significa anche essere una persona che “sa” nell’ambito del digitale: c’è una dimestichezza generale ma magari non sempre c’è una cultura dello strumento digitale.
Quello che vediamo oggi come richiesta preponderante dei giovani a tutti i livelli è il tema della nuova reinterpretazione del mondo del lavoro. I giovani chiedono e pretendono spazio per la loro vita privata. Non si tratta tanto dello smart working, ma sicuramente richiedono uno spazio che le persone della mia generazione, specie nei nuovi posti di lavoro, non chiedevano. Si potrebbe pensare che succeda solo a livello di white collar o impiegatizio. Non è proprio così.
Le viene in mente qualche esempio concreto?
Qualche settimana fa parlavo con un’azienda che produce cerchioni per le autovetture after market. Una volta acquistata l’autovettura si può personalizzare con questi cerchi fantastici. L’imprenditore mi diceva: “Mi arriva una richiesta nuova e tutta la fascia di operai che vado ad inserire mi chiedono una pausa pranzo più lunga. Tutti di solito volevano accorciarla per arrivare a casa prima. Adesso le nuove risorse chiedono di allungarla perché vogliono andare in palestra e quindi mi chiedono anche se c’è una palestra vicina”. Così anche la palestra diventa un driver per attirare persone. Non è banale, perché significa reinventare la fase logistico-produttiva delle aziende. Quindi, insomma, questo è un settore di auto sportive di lusso, per cui magari i più giovani sono attirati, l’imprenditore ne ha molti, però, per riuscire a trattenerli deve inserire dei benefit di tipo diverso dal solito.
Giovani e anziani a parte, dopo le grandi dimissioni, è arrivata la fase del quiet quitting: i dipendenti vogliono lavorare meno e senza pressione. Quale sarà la prossima evoluzione del mondo del lavoro?
Stiamo assistendo a una fase che potremmo definire “Diamo una chance all’azienda”. Noi stessi, come sistema Confindustria ma anche come azienda Fòrema, ci siamo ritrovati prima esattamente con il fenomeno delle grandi dimissioni: non abbiamo avuto dimissioni di massa, però sicuramente delle dimissioni ci sono state all’interno del nostro cosmo e non era così usuale, per cui è arrivato anche per noi un elemento nuovo. Poi c’è stato il disinnamoramento dei progetti aziendali.
Oggi siamo in una fase diversa, ad esempio c’è questo fenomeno: le persone o i team anticipano ai loro responsabili che c’è un malumore; magari fino a qualche tempo fa arrivavano già con le dimissioni e un altro posto di lavoro in mano, oggi notiamo invece la volontà di ricostruire un rapporto. Sappiamo bene che, nelle grandi dimissioni, l’80% delle persone che ha cambiato spesso e volentieri lo ha fatto in peggio. Ha cambiato più per un sentimento di frustrazione, di pancia: quindi, insomma, anche questo è un elemento che evidentemente poi è girato.
E quindi che cosa succede?
Le persone tendono molto di più a manifestare un malessere, un mal di pancia, ma arrivano anche con delle proposte di miglioramento. Secondo noi l’azienda dovrebbe investire di più, magari in organizzazione e in gestione, dovrebbe migliorare la trasparenza delle relazioni e dare feedback.
C’è tutta una serie di attività che in un certo qual modo danno ancora credibilità all’azienda. Permettono all’impresa di avere quella chance – se sfruttata – di mettere a terra progetti e percorsi per recuperare. Noi stiamo lavorando tantissimo proprio su questo punto e soprattutto su tutta quella fascia, non tanto di primo livello, ma di capi, responsabili e intermedi. Sono quelli che soffrono di più la pressione tra la linea dirigenziale e gli operativi.