«Un’azienda che vuole vedere più donne in posizioni manageriali, deve rendersi conto che non è sufficiente sostituire una casella. Spesso mancano donne in posizione di leadership perché le aziende per anni non hanno creato le giuste condizioni affinché questo accadesse». Con Giorgia Ortu La Barbera, Consigliera di fiducia per Rai, Greenpeace e Sapienza, abbiamo discusso di pinkwashing, rappresentazione femminile e fattori ostacolanti che non permettono una crescita professionale equa
Giorgia Ortu La Barbera, Consigliera di fiducia per Rai, Greenpeace e Sapienza che da tempo si occupa di temi riguardanti le differenze all’interno dei contesti organizzativi e di inclusione delle diversità, è anche una psicologa da oltre vent’anni e ha sempre creduto che fosse possibile costruire luoghi di lavoro sani e sostenibili, in cui le persone potessero esprimere la propria individualità, creatività e intelligenza. Sostenitrice di una cultura dell’inclusione di genere, ha lavorato come consulente, trainer e coach con persone, team e aziende, che vanno dalle multinazionali alle medie imprese, dalle organizzazioni no-profit alle pubbliche amministrazioni.
Nei Centri Antiviolenza presta in forma volontaria la sua attività professionale per lo sviluppo dell’empowerment delle donne ed il superamento degli stereotipi di genere in percorsi di education.
Quali sono i maggiori ostacoli che le donne incontrano nel lavoro, sulla base della tua esperienza come Consulente per la Diversity, Equity & Inclusion?
Ci sono due fattori principali: il primo riguarda l’eventualità della donna di diventare madre e come questo potrebbe rappresentare un ostacolo per l’inserimento nel mondo del lavoro e la sua crescita professionale. Se guardiamo ai dati dei paesi dove il congedo di paternità è stato esteso in maniera obbligatoria e retribuita, potremmo constatare che la situazione si riequilibria.
L’Italia purtroppo è il penultimo paese d’Europa, prima della Grecia, con il più basso tasso di occupazione femminile. La potenzialità di essere madre e le difficoltà che questo comporta, in un contesto economico come il nostro, fatto prevalentemente di PMI, fanno sì che una donna che va in maternità crei un problema all’impresa. Ma si tratta di un problema strutturale.
Dall’altro lato ci sono tutte le rappresentazioni associate all’essere donna, che in quanto madre sembra debba essere l’unica dedita all’accudimento e alla cura: questo comporta una specifica direzione nella scelta dei percorsi di studio e di carriera, e le stesse donne sono intrise di questa cultura.
Quando metto in discussione la possibilità di avere dei figli, o parlo del sacrificio che può comportare essere madre vado a rompere uno schema identitario e di genere ben radicato: il punto è che spesso continuiamo a crescere delle donne che sono già votate ad assumere una dimensione materna, con le conseguenze che ne derivano sul piano della loro crescita professionale e della rappresentazione della donna nei contesti organizzativi.
Secondo l’Osservatorio “Donne e lavoro” che Cida realizza in collaborazione con Adapt, un aumento del numero dei figli determina una diminuzione del tasso di occupazione femminile. Come è possibile autodeterminarsi nel lavoro e nella vita e al tempo stesso avere il desiderio di maternità?
In quanto donne veniamo educate a cedere ed è forte la credenza secondo la quale manchiamo di assertività. È molto più tollerato che una donna non riesca a raggiungere un obiettivo, mentre gli uomini sono educati e orientati al successo. Per loro è impossibile mettere in discussione il proprio lavoro di fronte al diventare genitore. Una donna invece lo fa.
La tentazione di una madre di tirare i remi in barca e interrompere il proprio percorso di carriera per qualche anno è forte, ed è figlia di un modello educativo che tollera questo tipo di scelte da parte nostra. Il problema però è che quando si fanno queste scelte, non se ne comprendono le conseguenze nel medio e lungo periodo.
Un altro aspetto è dato dalla rappresentazione che abbiamo di noi stesse all’interno dell’ambiente familiare: tendiamo a fare nostri i carichi di cura. Il primo obiettivo dovrebbe essere quello di rinegoziare questo ruolo e di ridefinire le regole del gioco dentro il rapporto di coppia e famigliare. Invece tendiamo a portare avanti il ruolo di donna perfetta, e finiamo per farci carico di più incombenze di quelle che riusciamo realmente a sostenere.
Le donne in posizione di leadership sono meno di un terzo, il 32%, secondo il Global Gender Gap Report 2022 del World Economic Forum. Vediamo aziende che nonostante vogliano incentivare le donne a raggiungere posizioni apicali, fanno fatica o commettono errori. Perché?
Di recente ho realizzato una piramide in cui descrivo la graduatoria delle organizzazioni rispetto al tema dell’equità di genere. Alla base ci sono le persone che non ne vogliono sentire parlare. Il problema per loro non esiste, quindi non fanno niente.
Poi c’è chi fa pink washing, cioè dice di sostenere le donne, ma non fa nulla che porti a un reale cambiamento. Un esempio è il cosiddetto “commodity feminism”: l’appropriazione di slogan inclusivi e validi dal punto di vista delle donne e del femminismo, a cui però non viene accompagnata un’azione concreta e un impegno effettivo.
Salendo un po’ ci sono quelle aziende che fanno anche cose interessanti, ma fuori da un piano strategico e che non hanno organicità. Infine, in cima ci sono le aziende che hanno un piano strategico effettivo e funzionale.
Possiamo compiere tante azioni, come aumentare la durata del congedo di paternità per permettere ai padri di vivere più pienamente la loro esperienza genitoriale, o aumentare le occasioni di flessibilità per le donne. Il punto è che se tutto questo non ha un obiettivo chiaro a cui si vuole arrivare, diventano delle azioni spot: molto belle, ma che non producono un vero cambiamento.
Quale direzione dovrebbero seguire le aziende per applicare strategie concrete in termini di parità di genere? Qual è l’errore più comune in questo senso?
Per produrre un cambiamento reale, le aziende devono chiedersi cosa voglio ottenere: se desiderano che le donne arrivino a posizioni manageriali con una maggiore frequenza rispetto a oggi, allora non sarà sufficiente eliminare una casella e sostituirla. Magari le donne che possono candidarsi per quella posizione tu non le hai, perché nei vent’anni precedenti non hai creato le condizioni affinché questo accadesse. E così non è corretto. Per questo vanno costruiti dei piani e degli obiettivi di medio periodo, e su quegli obiettivi vanno costruite delle azioni.
In quanto azienda, se le donne sono ferme nella parte medio bassa dell’organizzazione allora mi devo interrogare sulle modalità di lavoro. Devo domandarmi se il lavoro che offro permette loro di crescere nonostante le incombenze familiari.
È ancora molto presente un modello organizzativo secondo il quale sei efficace se sei reperibile oltre le ore di lavoro, o se rispondi alle mail di notte. È ovvio che questo è un sistema che mal si concilia con alcune esigenze familiari.
Quando, invece, possiamo dire che un’azienda sta offrendo un sistema di welfare volto all’inclusione e alla crescita di tutte le categorie? Ad esempio, perché a chi lavora part time spesso non viene concesso di fare carriera?
Anche qui è utile ragionare sulle reali possibilità che si mettono a disposizione di uomini e donne per la loro crescita. È necessaria, in questo senso, un’analisi che indichi dove andare per colmare alcuni vuoti. È importante dare la possibilità anche a chi lavora part time di fare carriera: oggi ancora si pensa che se lavori a “mezzo servizio” sarai per metà produttiva, e invece non è così.
Parallelamente devono essere messi a disposizione dei sistemi di supporto alla genitorialità, come le convenzioni con gli asili nido, asili nido aziendali e tutto quello che facilita il lavoro di chi ha dei figli, come anche la flessibilità lavorativa. Lo smart working, un modello perfettamente funzionante, è un grande strumento di conciliazione. L’obiettivo deve essere rimuovere tutti quei fattori ostacolanti alla crescita professionale dei genitori.
Hai degli esempi di realtà che sono riuscite a realizzare un miglioramento concreto?
Un’azienda che conosco aveva un obiettivo di quote di genere nelle posizioni manageriali. Quando si sono aperte le posizioni, le donne non si sono candidate e la responsabile del programma di D&I si è stupita di questa mancanza di adesioni.
Andando ad analizzare il problema in profondità ha capito che le donne, per poter crescere in questa azienda, dovevano fare delle esperienze in altre sedi (come spesso succede nelle grandi aziende e multinazionali). In tante, però, avevano difficoltà a spostarsi, proprio per via dei figli piccoli: la soluzione è stata mettere a loro disposizione un bonus capace di supportarle economicamente, dando loro anche la possibilità di trasferirsi insieme ai figli. Questa iniziativa, poi, è stata rivolta anche agli uomini. Un ottimo esempio di come tutti e tutte possiamo beneficiare di un sistema più equo.
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