Uno studio di Counterpoint Research sulla Gen Z e l’apparente ritorno ai cellulari con poche funzioni è il punto di partenza dell’intervista a Beatrice Cristalli, da cui emerge una carta d’identità delle nuove generazioni: “La nostra vita è l’onlife”
Alla spasmodica ricerca dello smartphone ultra-accessoriato di ultima generazione sembra fare da contraltare il desiderio di tornare ai telefonini di una volta, con le funzioni base, per disintossicarsi dalle raffiche quotidiane di notifiche e social network. I messaggini, le chiamate e qualche giochino, come il caro vecchio “Snake” per esempio, possono bastare. Aggiungendo la possibilità di fare pagamenti elettronici, poi, c’è già tutto il necessario.
Gli analisti di Counterpoint Research hanno studiato il calo generale del mercato americano dei cellulari, scoprendo che la Generazione Z e i Millennial hanno voglia di digital detox. È una nicchia, ma significativa: le previsioni parlano di vendite per quasi 3 milioni negli Usa di telefoni basic, ovvero gli economici dumbphones, il contrario di smart.
Se c’è una persona che conosce le nuove generazioni e il loro rapporto con il mondo tecnologico digitale è Beatrice Cristalli, consulente in editoria scolastica, linguista e formatrice (Treccani, Mondadori, Rizzoli, Focus), autrice del libro “Parla bene pensa bene. Piccolo dizionario delle identità”. L’abbiamo intervistata per indagare questi temi. Incuriositi dal passato e “onlife”, maestri di “e-taliano” e alla ricerca di autenticità: è la carta d’identità delle nuove generazioni, che d’altra parte imparano coding e stem già dai 3 ai 5 anni.
Volendo provare a individuare una tendenza generale, il rapporto della Gen Z con il telefono e il mondo digitale è più spesso positivo o più spesso tossico? Perché?
Direi nessuno dei due. Il rapporto che si è instaurato è figlio del nostro tempo, un tempo iperconnesso e legato a dinamiche di ricompense sempre più esigenti, come le notifiche dei like, dei commenti o dei messaggi su Whatsapp. Jean M. Twenge, nel suo saggio Iperconnessi (Einaudi, 2018), di cui consiglio la lettura, attraverso le sue interviste aveva già individuato nelle nuove adolescenze la tendenza di associare lo smartphone a un prolungamento del proprio corpo. Ma del resto, in questa dinamica siamo dentro tutte e tutti. La nostra vita è l’onlife e non si torna indietro.
La Gen Z e i Millennial sono completamente avvolti dalla realtà virtuale o avvertono anche un bisogno di “disconnessione”, come l’analisi americana di Counterpoint Research intende mostrare?
Più che un desiderio di disconnessione noto nella Generazione Z una richiesta di maggiore autenticità. Per esempio, il boom di download dell’app Be Real dimostra come le nuove generazioni si siano “stufate” dell’estetica perfetta tutta filtri – ovvero “instagrammabile” – che tanto ha caratterizzato l’adolescenza Millennial.
L’eventuale bisogno di telefonini basici per disconnettersi può essere indice di assenza di forza volontà? Basterebbe usare meno il classico smartphone e aprire meno App…
Esatto, ma il design di un Blackberry anni 2000 è malinconico e dunque cool. La nostalgia è un elemento sempre presente nella moda. E probabilmente si fonda anche su un bias cognitivo, conosciuto come Rosy retrospection (“visione rosea del passato”), per cui valutiamo il passato in modo più positivo rispetto al presente e al futuro. Tuttavia non credo sia un caso che il dumbphone sia oggi d’interesse per la Generazione Z. Infatti questa generazione ha vissuto la preadolescenza senza fare esperienza dell’analogico. Di quel “mondo prima” – del digitale – hanno ricordo solo i Millennials, con una serie di oggetti di modernariato tecnologico che ovviamente incuriosiscono i nati e le nate dopo il 1996. Il tutto rientra nella venerazione dello stile conosciuto oggi come “Y2K” (anni 2000, appunto).
I dati dell’indagine sono accompagnati dall’aumento delle views dell’hashtag “#bringbackfliphones” su TikTok: in pratica la Gen Z prima userebbe i telefoni basic e poi racconterebbe questa esperienza sui social. Il digital detox è moda passeggera o sostanza?
L’esperimento è interessante, ma temo durerà poco. Soprattutto se il digital detox è finalizzato alla creazione di un contenuto.
Secondo la tua esperienza, la Gen Z e i più giovani quanto si lasciano influenzare dalle strategie di marketing che potrebbero stare alla base delle mosse delle compagnie telefoniche?
La Generazione Z mi sembra molto attenta al funzionamento delle dinamiche di marketing, ma la telefonia crea molto più di un bisogno. Il telefono è un elemento essenziale nelle nostre vite. Credo che l’intuizione di Nokia rispetto al prodotto “fliphone” funzionerà bene con le nuove adolescenze.
Da “specialista delle parole”, come si potrebbe rendere nel modo migliore in italiano “always on”, l’espressione inglese che indica l’iperconnessione contemporanea?
Se non vogliamo utilizzare “iperconnessi” possiamo tradurre “always on” con un’espressione altrettanto colloquiale, che suona come slang: “sempre sul pezzo”. Rientra nel fenomeno della FOMO, l’acronimo inglese di “Fear Of Missing Out”, che indica la paura di essere esclusi da ciò succede nel mondo, cioè nel web e nelle piattaforme social.
L’utilizzo degli smartphone influisce positivamente o negativamente sul linguaggio della Gen Z e dei più giovani?
Grazie alle numerose piattaforme social oggi si parla molto di più. La contaminazione è velocissima e lo slang cresce. Quello a cui spesso non facciamo attenzione è la modalità di comunicazione dell’e-taliano, come insegna Giuseppe Antonelli. La nostra scrittura è frammentata, caotica e istantanea. È la morfologia stessa del mezzo che ci costringe a usarla in questo modo. Pensiamo alla formulazione di pensieri nella messaggistica istantanea: non usiamo né le pause né le subordinate. Poi si verificano fenomeni curiosi. Per esempio, nella dimensione digitale la punteggiatura sembra avere una norma tutta sua. Oggi, infatti, è sempre più difficile interpretare gli usi che ne fanno gli utenti che riproducono, spesso, le intonazioni del parlato, grazie all’abbondanza di punti di sospensione, punti esclamativi o punti interrogativi.
Nelle scritture digitali, i puntini sono spesso moltiplicati in sequenze di gran lunga eccedenti il classico numero di tre, sequenze spesso inusuali che sostituiscono altri segni, come il punto fermo, che pare essere censurato: dato il suo carattere definitivo, darebbe all’affermazione una connotazione negativa, comunicando rabbia o insofferenza.