«L’immaginario delle persone della mia generazione è stato plasmato da una tipo di comunicazione in cui il corpo delle donne veniva trattato come un oggetto da vendere, insieme al prodotto in questione. Sono tutti messaggi che implicitamente, ma continuativamente, forgiavano il tuo pensiero e questo era il riflesso di una società sessista, inconsapevole di esserlo. Nel momento però in cui la comunicazione inizia a mostrare ruoli diversi, non stereotipati, e usa un linguaggio più attento, si può ampliare l’immaginario socialmente accettato e uscire dalle gabbie dei ruoli di genere». A dirlo è Flavia Brevi, Capa della Comunicazione di Fondazione Libellula e fondatrice di Hella Network.

Se è vero che i media e la pubblicità sono lo specchio della società in cui viviamo, a partire dalla fine degli Anni ’50, con l’avvento della televisione, sono state rappresentate solo due figure: l’uomo e la donna. La prima è stata raffigurata per tanto tempo solo in un contesto domestico e il secondo al lavoro e in una condizione di superiorità. Si dovranno aspettare gli anni Duemila per uscire dal binarismo di genere e cominciare a vedere rappresentati altri gruppi di persone.

Lo stesso è stato per le aziende, che hanno cominciato ad attrezzarsi per essere più inclusive. Secondo la ricerca “Future of Work” di Inaz – Osservatorio Imprese Lavoro e Business International, che ha coinvolto circa 100 HR director di aziende italiane, è ancora difficile per le imprese italiane tradurre i buoni propositi in azioni concrete. Dai dati emerge che l’84% degli intervistati considera la D&I (Diversity & Inclusion) urgente per una questione etica, ma meno della metà attua piani concreti.

Di come e perché le aziende dovrebbero investire su un tipo di comunicazione che rispetti le diversità di ognuno ne abbiamo parlato con Flavia Brevi di Fondazione Libellula.

 

Cos’è per te la comunicazione inclusiva?

Si tratta di una comunicazione accessibile alla maggior parte delle persone, che include nel senso che tiene in considerazione i vari gruppi sociali, anche quelli che finora sono stati marginalizzati o sottorappresentati.

Significa ampliare il proprio linguaggio e lo sguardo, tenendo conto che noi finora abbiamo messo al centro delle nostre narrazioni l’uomo, letteralmente, e abbiamo guardato il mondo da un punto di vista maschile, etero, cis e bianco. Quindi certe espressioni che usiamo, come per esempio “color carne”, sono dovute al fatto che abbiamo messo al centro dell’universo un tipo di persona e l’abbiamo resa universale, considerando le altre identità versioni B del “modello standard”.

Altro esempio: il fatto stesso che per alcune professioni non usiamo i femminili, nonostante si trovino nel dizionario e grammaticalmente non ci siano impedimenti. La conseguenza è che certi ruoli, soprattutto apicali, non siano davvero considerati “lavori per donne”.

È importante cercare di usare le parole in modo comprensibile e comprensivo, cioè che comprenda quante più persone possibili, perché rendere invisibili delle identità significa discriminare.

Come e perché le aziende dovrebbe investire su un tipo di comunicazione che rispetti le diversità di ognuno?

Perché sappiamo che la nostra società sta cambiando, è più multiforme di una volta e con una consapevolezza diversa. Sappiamo che abbiamo dei bias inconsci e spesso il linguaggio che usiamo è un modo per scoprire i nostri pregiudizi inconsci. Sfruttiamo questo per capire su cosa dobbiamo lavorare. Altrimenti il rischio è quello di diventare escludenti, che significa anche rinnegare un po’ la meritocrazia. Se io non considero mai che nel mio personale possano venire a lavorare delle persone non bianche o delle donne in posizioni apicali significa che, più o meno inconsciamente, sto escludendo delle persone da alcuni ruoli e ci precludiamo così visioni e punti di vista arricchenti.

C’è stata un’evoluzione del linguaggio nei media e nella pubblicità nel tempo. Secondo te cosa ha ancora bisogno di essere cambiato? E cosa invece ha funzionato?

Ora c’è maggior attenzione nell’evitare stereotipi e sessualizzazione delle donne. Certo, ci sono ancora dei brand che non si sono evoluti o che giocano apposta su una certa ambiguità, ma sono sempre meno. Una volta reiterare rigidi ruoli di genere (donna = casalinga, uomo = lavoratore) era la normalità. Oggi qualunque professionista della comunicazione sa che è un rischio. Quindi sì, vedo dei cambiamenti, anche se, come ogni cambiamento culturale, sono lenti e non possono avvenire dall’oggi al domani. Le prese di coscienza profonde richiedono tempo.

Ci sono dei settori dove si fa più fatica?

Se ho una dirigenza che è resistente ai cambiamenti linguistici, culturali e societari, anche la comunicazione poi dovrà adeguarsi alle scelte del comparto manageriale. Bisogna sempre formare chi fa comunicazione perché, come dicevo prima, il bias è dietro l’angolo. Se sono molto attenta o attento con le parole e poi non mi rendo conto di aver usato un’immagine stereotipata, rischio di andare contro il mio principio di inclusione. Per questo è importante investire sulla formazione continua. Nessuno nasce perfetto. Si può sbagliare ed è normalissimo. La differenza la fa la volontà di migliorarsi.

Il motto che hai scelto per Hella Network, di cui sei fondatrice, è: “La comunicazione è figlia della società in cui nasce, ma può mostrarle come essere migliore”. Cosa intendi?

L’immaginario delle persone della mia generazione è stato plasmato da una tipo di comunicazione in cui il corpo delle donne veniva trattato come un oggetto da vendere, insieme al prodotto in questione.

Sono tutti messaggi che implicitamente, ma continuativamente, forgiavano il tuo pensiero e questo era il riflesso di una società sessista, inconsapevole di esserlo. Nel momento però in cui la comunicazione inizia a mostrare ruoli diversi, non stereotipati, e usa un linguaggio più attento, si può ampliare l’immaginario socialmente accettato e uscire dalle gabbie dei ruoli di genere.

Si può parlare di rappresentanza attraverso il linguaggio? E quali sono i settori in cui è più faticoso parlare di inclusione?

Assolutamente. Il linguaggio è rappresentazione, ma può essere anche rappresentanza nel momento in cui decido chi parla, attraverso quale punto di vista veicolo la narrazione. Tradizionalmente sono quelli dove è più difficile entrare per una donna o per una persona che non faccia parte del gruppo socialmente dominante. Mi riferisco anche a tutti quei posti con il famoso soffitto di cristallo, in cui le donne magari ci sono in azienda, ma ricoprono ruoli alla base della piramide e non è proposta loro una possibilità di crescita professionale o dove la maternità è ancora vista come un ostacolo al fare bene il proprio lavoro.

Con Fondazione Libellula avete creato il sondaggio “L.E.I. Lavoro, Equità, Inclusione” e state raccogliendo i dati per il 2024. Cosa è emerso fino ad ora?

Questa survey l’avevamo fatta nel 2022 ed era emerso che una donna su due aveva subito molestie o discriminazioni sul posto di lavoro. Quello che vogliamo vedere è se nel frattempo c’è stato un cambiamento e vogliamo allargare il pubblico al quale ci rivolgiamo.

Nel 2022 era indirizzato alle donne lavoratrici , quest’anno abbiamo allargato anche alle donne disoccupate o inoccupate, cioè a chi aveva un lavoro e ora non ce l’ha più o a chi non ha mai avuto un lavoro. È interessante poter fare ogni anno la stessa indagine perché ti fa vedere lo stesso dato come e se cambia nel corso del tempo. Faremo anche un approfondimento regione per regione, per vedere a livello locale che cosa cambia. Il questionario è aperto fino al 31 gennaio e chiediamo a tutte le maggiorenni di rispondere a queste domande per dare un quadro quanto più attinente possibile alla realtà.

Come vi siete accorti di cosa andava migliorato anno dopo anno? Fate corsi anche di empowerment maschile?

Attraverso confronti continui e la capacità di ascolto. Alcuni suggerimenti sono arrivati dai feedback dalle persone che hanno compilato la survey nel 2022. I feedback sono importantissimi, anche per ampliare e migliorare la nostra offerta formativa, nella quale vogliamo coinvolgere sempre più gli uomini.

Allo Spazio Libellula, per esempio, si svolge un percorso dedicato a loro, “EmpowerMEN”, dove possono riscoprire il proprio sé al di fuori degli stereotipi di genere. Sappiamo che anche per un uomo ci sono delle pressioni sociali, come il dover essere il “bread winner”, cioè quello che mantiene la famiglia e guadagna più della partner, se si trova in una relazione eterosessuale. Oppure l’obbligo “morale” di mettere al primo posto il lavoro, sempre, anche sopra la famiglia. Nella nostra Survey L.U.I. (Lavoro, Uomini, Inclusione) è emerso che il 40% degli uomini si sente a disagio nel dover esplicitare sul posto di lavoro esigenze connesse con la cura della famiglia.

E guarda caso, siamo uno dei Paesi UE con meno giorni di congedo di paternità e tanti padri ancora non ne beneficiano appieno. Un’altra discriminazione è quella di non poter mostrare alcuni sentimenti, come l’affetto verso altri uomini o la tristezza, scambiati per segnali di debolezza.

Quali sono le difficoltà più grandi che riscontri con il tuo lavoro?

La resistenza al cambiamento, quella è naturale. Come esseri umani non siamo predisposti a cambiare con facilità. Per il nostro cervello cambiare è un grande dispendio di energia, quindi tende a frenare e a mettere ostacoli. C’è in più il fatto che il linguaggio è una questione altamente identitaria. Se io ti chiedo di parlare in maniera più inclusiva, il sottotesto che viene recepito è che non ti esprimi bene, quando in realtà non è di questo che si tratta. Viene preso come un attacco personale, e si tende a mettere delle barriere. Queste barriere a volte impediscono alle persone di ascoltare le vere motivazioni o anche solo di ingaggiarsi attivamente sulla questione.

Quali sono i dati che riguardano la violenza di genere e le giovani generazioni?

Di recente abbiamo pubblicato l’eBook, basato su una nostra survey, “La violenza di genere in adolescenza” ed emerge che le nuove generazioni hanno ereditato ciò che la mia generazione, e quella prima ancora, hanno tramandato loro, anche attraverso i film e le canzoni. Abbiamo spacciato per amore delle forme di violenza come il controllo, il possesso e l’abnegazione della persona. I dati dicono che ancora 1 adolescente su 3 non riconosce queste forme di violenza e pensa che siano segni d’amore, come impedire alla propria partner o al proprio partner di vestirsi come vuole, obbligarla o obbligarlo a mostrare il cellulare o geolocalizzarsi ogni volta che esce con altre persone. Non sono forme di relazione sana, paritaria, egualitaria, ma di controllo e possesso.

Ero una di quelle che prima diceva che le nuove generazioni saranno meglio di noi. Poi mi sono resa conto che pensare così è un modo per deresponsabilizzarci. Cosa stiamo facendo nel frattempo? Continuiamo ad alimentare la cultura con messaggi sbagliati, che creano confusione, quando invece dovremmo prenderci le nostre responsabilità dando l’esempio.