La maternità, soprattutto nei luoghi di lavoro, vive ancora di stereotipi duri a morire: il primo è che la produttività, quando nasce un figlio, cala inesorabilmente. Così tante professioniste si ritrovano quasi emarginate, escluse da promozioni e mansioni che “certo non può fare una neomamma”. Consapevole di ciò, una psicoterapeuta e coach ha fondato una startup e brevettato un metodo per aiutare le madri a non rinunciare a se stesse e le aziende a valorizzare la maternità delle proprie dipendenti, senza vederla come un ostacolo

Una “guerriera gentile”: per descrivere Cristina Di Loreto, le parole migliori sono proprio le sue, rivolte a tutte le donne e madri che si sono affidate al suo metodo per essere un (buon) genitore senza dover rinunciare ai propri obiettivi, personali o professionali. Psicologa, psicoterapeuta e coach esperta di problem solving, Di Loreto è anche la Ceo & Founder di Me First®, startup che ha l’obiettivo di supportare le madri attraverso un metodo validato dalle risposte di centinaia di mamme a un questionario preliminare, oltre che dall’efficacia constatata su ognuna di loro.

Me First è quindi una “palestra virtuale di crescita personale” rivolta a chi, una volta diventata madre (o padre) ha avvertito un senso di inadeguatezza e di fatica per conciliare la propria vita con questo enorme oceano di responsabilità che è il crescere un figlio. Oceano che la psicoterapeuta, con tutto il team di Me First, insegna a navigare, offrendo ai genitori un metodo e alle aziende uno strumento per ribaltare uno stereotipo duro a morire: la maternità vista come un ostacolo nei luoghi di lavoro.

Abbiamo incontrato Di Loreto al primo Mom Empowerment Day, un evento che si è tenuto a Milano presso lo Spazio78 dedicato proprio al tema dell’inclusione e dell’empowerment genitoriale all’interno delle aziende. Molte le realtà aziendali presenti, come Barilla e Bialetti, per affrontare un tema tanto importante quanto urgente: il gender e maternity bias sui luoghi di lavoro.

 

Come e quando nasce Me First?

La nascita di Me First risale, nella mia mente, a sette anni fa, quando sono diventata mamma per la prima volta e ho sentito su di me l’impatto della maternità che si è tradotto in un fortissimo senso di inadeguatezza: ho iniziato a percepire il non sentirmi madre e nessuno mi aveva detto che poteva succedere. La maternità è colma di idealizzazioni, di aspettative, ma non si parla quasi mai delle difficoltà che possono apparire anche insormontabili. Lì ho iniziato a pensare: se io, che ho tutte queste strategie mentali, che ho studiato psicologia per tanti anni, non riesco ad affrontare in maniera serena questo momento, come fanno tutte le altre donne là fuori? Quindi ho pensato di creare un progetto per dare alle madri degli strumenti psicologici di supporto.

Poi è arrivata la pandemia: in quel periodo ho lavorato tantissimo come psicologa dell’emergenza e alla fine, come tanti altri, ho sperimentato un grande senso di sopraffazione che mi ha portato a dire “ok ora basta, ora vengo io per prima”. Altrimenti non avrei più avuto energia, né per me né per i miei figli. E lì ti rendi conto di quanto, per noi mamme, è difficile metterci al primo posto. Me First nasce quindi dalle mie ferite e dalle mie competenze come psicoterapeuta. Ho ideato un questionario che ho cominciato a far girare sui social e su whatsapp e in 3 giorni hanno risposto circa 400 madri. Cercavo conferma che le principali difficoltà che avevo identificato fossero comuni e ho scoperto che quel che stavo provando io era ben noto anche alle altre madri: questa sensazione di fatica, stanchezza, e senso di colpa.

 

Senso di colpa? Per cosa?

Come dicevo, per le madri mettersi al primo posto è difficile. Prevale spesso la sensazione di non stare dedicando abbastanza attenzioni né ai figli, né al lavoro. Si vive il proprio diritto all’indipendenza come una manifestazione di egoismo. Siamo figlie e figli di un mondo in cui la madre è madre e basta: non c’è più spazio per le proprie passioni, per la propria indipendenza.

Per questo abbiamo proposto un’evoluzione del concetto, che negli ultimi anni ha preso molto piede, di “work-life balance”: la trappola nascosta è considerare “work” e “life” come compartimenti stagni, che non comunicano tra loro. Ma sappiamo tutti che non è così: per questo preferisco parlare di “work-life harmony”, perché ciò che è importante è che queste due dimensioni si contaminino in maniera armoniosa, e di “work-life surfing”, ossia il ritagliarsi spazi propri, dove coltivare la propria passione e individualità, senza sentirsi per questo egoisti.

 

In cosa consiste il metodo?

Facciamo partecipare le madri, ma anche i padri, a programmi di training psicologico e lavoriamo anche con le aziende, offrendo loro degli strumenti per creare dei percorsi di crescita personale dove le madri possono apprendere il nostro metodo e farlo loro. È importante ribaltare gli stereotipi e superare gli unconsciuous bias sulla maternità: pensare che una donna incinta o che ha da poco avuto un figlio non sia in grado di svolgere le proprie mansioni lavorative, per esempio. Non deve esistere un conflitto tra lavoro e maternità, anzi, il rapporto tra queste due dimensioni può essere appagante sia per la donna che per l’azienda, che vede le donne non più come dipendenti, ma come persone.

 

Hai parlato dei padri: sono coinvolti anche loro nel metodo?

Noi lavoriamo tantissimo con i padri, sia singolarmente che attraverso le madri. Si sta assistendo a una generale presa di coscienza tra gli uomini, che stanno giustamente rivendicando il proprio ruolo di genitori, e non era per nulla scontato: come le donne, anche loro sono figli di un mondo che affidava al padre un ruolo più “pratico” piuttosto che emotivo, relegato di solito alle donne. Per questo abbiamo sperimentato l’assenza della figura paterna e considerato la genitorialità come un problema delle donne e solo delle donne.

Non è così, ma sconfiggere questo stereotipo è altrettanto difficile, perché alle volte sono le stesse donne a opporre resistenza. Anche loro sono vittime di unconscious bias e spesso non lasciano spazio ai padri nella gestione della genitorialità. A livello aziendale, la consapevolezza è ancora gli albori: l’idea che gli uomini possano essere padri, che possano dover trovare un equilibrio tra paternità e lavoro, non è ancora parte della cultura aziendale. Ciò si traduce in pochi strumenti di welfare per aiutare gli uomini, un vuoto che Me First cerca di colmare.

 

Abbiamo da poco un nuovo governo e nel corso della campagna elettorale si è molto parlato, più o meno in tutti i programmi, del tema del supporto alle donne e madri lavoratrici. Quali aspettative ci sono e soprattutto cosa si dovrebbe fare, a livello di politiche attive, anche nel pubblico e non solo nella realtà delle aziende private?

Senza ovviamente esprimere una posizione politica, posso dirti che il lavoro da fare sarebbe tanto ma che non ho trovato soddisfacente nessun programma. Nello specifico, manca l’aspetto della valorizzazione della madre nel suo aspetto “sociale”: si pensa, ancora, alle madri in modo stereotipato, si ricorre ancora a quelle idealizzazioni di cui ti parlavo all’inizio. La bellezza di essere madre, la gioia di essere genitore. Sì, ovvio, ma c’è anche dell’altro: i figli sono gli adulti di domani, sono un bene culturale e sociale. La loro cura, il permettere ai genitori di essere genitori senza dover sacrificare la propria vita, assicurare il benessere delle madri e dei padri dovrebbe essere la priorità di ogni governo serio. Perché – e l’esperienza di Me First lo dimostra – è sbagliato pensare che le madri possano cavarsela da sole secondo l’idea che la maternità è un istinto che hanno tutte. Non è così e le difficoltà possono sopraffare chiunque.

 

A livello europeo e internazionale esiste un modello cui potremmo ispirarci?

Questa è una domanda complessa, perché la realtà è che un modello “sempre vincente” secondo me non c’è: nel Global Gender Gap Report presentato al World Economic Forum ai primi posti per migliori politiche di welfare troviamo sempre i paesi del Nord Europa. Sicuramente loro hanno capito qualcosa, ma sono paesi diversi dal nostro: è diversa la cultura di partenza e non è sempre detto che un metodo che funziona in un contesto avrà gli stessi risultati in un altro. Prendiamo gli Stati Uniti, ad esempio: su molti temi sono più avanti, ma pensiamo al welfare sanitario, in cui noi siamo molto più avanti. Quindi, un “modello unico” non esiste, quello che si può fare è studiare i metodi più convincenti e capire come armonizzarli alla nostra cultura e alla nostra realtà.

 

Che accoglienza ha avuto Me First?

L’anno scorso abbiamo celebrato il primo anno di vita di Me First sul palco di “Forti Insieme”, ideato da Pantene e Chiara Ferragni a sostegno di progetti a forte impatto sociale. È stato un riconoscimento importante perché è stata la conferma che siamo andati a colmare un vuoto, un’urgenza di cui non si parlava abbastanza. La nostra forza sta nella nostra esperienza e professionalità, che ci ha permesso di unire i concetti di maternità e di “people caring”. E questo si è visto anche nell’accoglienza delle aziende che hanno da subito deciso di scommettere su di noi, come Bialetti, Bip, HRC, che sono tutte presenti oggi in questo primo “Mom Empowerment Day”.

 

Qual è l’obiettivo a lungo termine di Me First?

Io vorrei vivere in una società in cui, per esempio, è normale chiedere alle donne che stanno cercando lavoro se vorrebbero diventare madri, ma che questo non abbia conseguenze negative sul lavoro. Un mondo in cui le aziende vedono le donne come parte di una comunità, come persone prima che dipendenti, e la maternità come parte naturale del loro percorso di vita.

Viviamo in una società dove, se rimangono incinte, le donne si preoccupano di comunicare la notizia a lavoro: questo è di una gravitò inaudita, perché carica la genitorialità di uno stress che va ad aggiungersi alle naturali difficoltà che una gravidanza prima e la maternità poi già naturalmente portano con sé. Vorrei che le donne non si vergognassero più nell’ammettere le proprie fragilità legate al loro ruolo di madre e che mettessero da parte il senso di colpa. Vorrei che potessimo dire alle nostre figlie e ai nostri figli che diventare genitori è un arricchimento e non un ostacolo su chi si vuole essere professionalmente. Perché dare alla luce non dovrebbe mettere nessuno in ombra.

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