«In quanto esseri umani, sentiamo l’esigenza di controllare ciò che accade, ma viviamo e lavoriamo bene solo nel momento in cui abbiamo la consapevolezza che questa è un’illusione e l’unica cosa che possiamo fare è esserci». Con Enrica Lipari, People & Culture Director di Growens, società quotata all’Euronext Growth Milan e operante nel settore delle cloud marketing technologies, abbiamo discusso dell’importanza di fare della diversità un valore fondante sia in ambito professionale che nella vita di tutti i giorni

Con Enrica Lipari, che è anche attiva in ambito startup/scaleup come Talent Advisor presso il Venture Capital The Techshop ed è una professoressa a contratto presso il Master dell’Università Luiss in Gestione delle Risorse Umane, ci siamo confrontate su come da un po’ di tempo, ormai, vediamo promuovere ovunque, dai brand alle aziende, policy di Diversity&Inclusion, generando non poca confusione e con l’obiettivo non dichiarato – ma spesso evidente – di ottenere consenso e rincorrere un cambiamento che sembra essere più veloce di loro.

Peraltro, se da un lato siamo cresciuti con la convinzione che per avere successo a livello professionale sia necessario soffrire (non per niente l’etimologia di lavoro è fatica), dall’altro negli ultimi due anni, complice la pandemia e l’impatto che ha avuto, stiamo sempre di più avvicinandoci a quello che possiamo definire un nuovo umanesimo del lavoro. Infatti, secondo un sondaggio condotto da Doxa quasi l’85% delle persone intervistate considera il proprio benessere psicologico generale correlato al proprio benessere sul lavoro e viceversa.

 

Partiamo dalle basi: qual è il ruolo della diversità in azienda e perché rappresenta un valore aggiunto?

Abbiamo capito nel tempo che le politiche di inclusione rendono più forte un’organizzazione, perché mettere insieme le unicità di tutte le persone significa allenarsi per fronteggiare il cambiamento, una costante nella vita. Oggi si ha a che fare con questa complessità e l’unico modo per affrontarla è attraverso la diversità, che dà pari valore alle competenze tecniche come a quelle trasversali, per troppo tempo sottovalutate, quali per esempio le differenze generazionali o le esperienze relative al vissuto personale.

 

A proposito di Diversity&Inclusion, secondo l’ILO, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, le attuali politiche di D&I rischiano di essere discriminatorie, perché sono maggiormente apprezzate e utilizzate dai senior manager (92%), un gruppo spesso omogeneo di uomini europei e over 50. Un dato che fa riflettere, non credi?

È evidente che utilizzare gli stessi mezzi e le stesse misure per tutti porta a un’iniquità tangibile, in quanto non tiene conto delle esigenze del singolo. Prendiamo l’esempio di una donna che ha da poco partorito: per ovvi motivi la sua priorità per un periodo sarà quella di concentrarsi sul suo essere madre, ma questo non vuol dire che si identifichi solo in quel ruolo; in lei è molto probabile che resti – e talvolta si rafforzi – il desiderio di sentirsi gratificata anche attraverso altre sfere della sua vita, come quella lavorativa.

Una buona azienda deve dare valore anche alle esperienze che il suo dipendente o che il consulente fa fuori dall’ambito professionale, anzi vanno incoraggiate con la consapevolezza che avranno un ritorno positivo sul suo operato, senza favorire una sola categoria. Ad esempio, in Growens di recente abbiamo presentato il manifesto WoW (Growens Way of Working), che si ispira ai nostri valori aziendali di Trust, Open-mindedness, Passion e Caring.

Attraverso queste nuove “regole”, che hanno alla base una flessibilità strutturale, le persone hanno la possibilità di migliorare il bilanciamento vita/lavoro e il business vede garantita la continuità dei flussi operativi anche in caso di nuove restrizioni dovute all’evolversi della pandemia. Questo è un esempio di come, se mettiamo al centro il benessere dell’essere umano in tutte le sue forme, ne va a beneficiare anche l’azienda nella sua totalità. Infine, mi viene da pensare a come siamo ancorati ad una cultura che per decenni ha elevato l’imprenditore ad eroe, quando in realtà quasi sempre altro non si tratta che di un uomo d’affari.

 

Cosa intendi per “imprenditore eroe”? E cosa distingue un “uomo d’affari” da un vero imprenditore o imprenditrice?

Le aziende nel nostro Paese sono affette da nanismo, non riescono a crescere perché spesso c’è l’ingombrante figura dell’imprenditore che vuole controllare tutti i processi, perpetuando così modelli lavorativi obsoleti. Il mio percorso nell’agilità mi ha fatto capire che tutti, in quanto esseri umani, sentiamo l’esigenza di esercitare controllo sulla realtà che ci circonda, ma questo va contro natura.

Tendenzialmente l’imprenditore in Italia rende il successo dell’impresa dipendente da se stesso, ma in questo modo l’organizzazione non cresce davvero, a causa della mancanza della capacità di delegare. La vera riuscita di un business, come di un progetto, si ha quando questo va avanti anche in nostra assenza. L’imprenditore vero sa avere cura degli asset come degli individui, empatizzando con quest’ultimi. Ottimi esempi in questo senso sono stati Luisa Spagnoli, Adriano Olivetti e lo stesso Brunello Cuccinelli lo è.

 

Hai citato Luisa Spagnoli e subito mi viene in mente il suo alter ego, di cui si parla tanto in questo periodo, ovvero Elisabetta Franchi. Cosa pensi delle sue ultime affermazioni che mettono al centro il lavoro, a discapito della dignità della persona?

Mi viene in mente il confronto immediato con Luisa Spagnoli, la quale introdusse nei suoi stabilimenti il diritto all’allattamento e il congedo retribuito di maternità: per lei le donne non dovevano mai rinunciare alla propria indipendenza. Non solo, a lei si deve la creazione degli asili nido per permettere alle operaie di conciliare i diversi impegni.

Il punto di partenza di queste due imprenditrici è lo stesso, entrambe si sono ritrovate a dover fronteggiare situazioni difficili che in qualche modo le hanno fatte soffrire, ma il risultato finale è opposto. Da un lato, Luisa Spagnoli ha deciso di trasformare questa difficoltà in una risorsa a beneficio proprio e di altre donne nella sua condizione; dall’altro, Elisabetta Franchi sembra non aver mai superato questo scoglio e non essersi evoluta umanamente. Invece di aprire una porta alle altre donne, ha deciso di rendere il loro percorso più difficile del suo. Un’occasione persa da parte di una donna che ha guadagnato una posizione di potere e in qualche modo poteva mandare giù l’ascensore sociale alle altre.

 

Prima abbiamo parlato di agilità: quando un’organizzazione si può definire agile e quali sono i benefici per chi ci lavora?

Un fattore fondamentale consiste nel capire che le persone, a prescindere dal genere, hanno esigenze diverse, così come anche i vari team di lavoro e queste esigenze vanno ascoltate. In questo senso, è importante che un’organizzazione sia agile, adattandosi al sistema, anzi anticipandolo. Per questo ogni singola risorsa va responsabilizzata e fatta sentire parte del processo decisionale, in modo da darle la possibilità di impattare sia sui successi che sugli insuccessi, entrambi fondamentali.

 

Mi hai fatto pensare agli ormai innumerevoli corsi di empowerment organizzati dalle donne per le donne oppure dagli uomini per le donne, che raramente vedono la partecipazione degli uomini o di altri gruppi. Non rischia di essere tutto fuorché inclusivo questo approccio?

In alcuni casi il rischio di azioni simili è quello di aumentare il divario e spesso si rivela svilente nei confronti dell’iniziativa stessa: far passare l’idea che corsi o iniziative vengano intrapresi per aiutare la donna, considerata culturalmente più debole, fragile e sensibile, quindi l’uomo, che è forte, non è necessario participi.

Questa è un’occasione persa, perché per dare potere a chiunque, a tutte le categorie, tutte le persone devono essere coinvolte e avere accesso alle stesse informazioni. Dall’altro lato è incoraggiante constatare come le donne riescano ad esercitare la loro influenza nonostante non siano spesso sostenute da reali provvedimenti: basti pensare al crescente avvicinamento delle donne alle materie STEM. Ghettizzando i contenuti di un’iniziativa non si arriva al risultato auspicato. Più coinvolgiamo tutte le persone e mettiamo insieme le diversità, più riusciremo ad arrivare all’emancipazione di ognuna di loro.

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