«Non avere un’educazione finanziaria di base significa dipendere da qualcun altro: se non siamo in grado di gestire il nostro denaro, qualcun altro lo farà per noi, quindi si crea una situazione di dipendenza. Questo vale soprattutto per le donne, che storicamente hanno un problema di autonomia ed emancipazione finanziaria rispetto agli uomini, che siano i compagni, i mariti o i padri». Marcella Corsi è professoressa di Economia alla Sapienza di Roma e coordinatrice del Laboratorio Minerva sulla diversità e disparità di genere

Nell’ultimo Gender Equality Index emerge un dato importante riguardo al tempo che le donne dedicano al lavoro non retribuito. In Europa il punteggio è uno dei più bassi (64,9 punti) tra le varie categorie. Questo dimostra come il divario di genere relativo alla partecipazione alle attività sociali si sia accentuato.

Si stanno ancora facendo sentire gli effetti della pandemia, che ha portato a un forte aumento dell’assistenza domiciliare non retribuita, esercitando un’enorme pressione sulle persone, in particolare sulle donne, che ogni giorno vivono molte difficoltà nel cercare di conciliare lavoro e vita privata – e nella maggior parte dei casi non ci riescono.

Inoltre, le madri lavoratrici con figli di età inferiore ai dodici anni, in particolare quelle che non possono contare sul sostegno della famiglia o di altre persone, hanno incontrato le maggiori difficoltà. Abbiamo parlato di questo, come anche di come spesso le donne siano vittime di norme sociali non scritte, con Marcella Corsi, fondatrice del Laboratorio Minerva.

 

La mancanza di educazione finanziaria impatta anche sulla ricerca di un lavoro, oltre che sulla vita quotidiana?

Sicuramente. Le statistiche evidenziano una carenza di educazione e istruzione finanziaria per la

Marcella Corsi, fondatrice del Laboratorio Minerva

popolazione italiana, in particolare per quanto riguarda le donne e i giovani: le prime, in particolare, vivono ancora troppo spesso una dipendenza forte dall’uomo che spesso impedisce loro di fare delle scelte consapevoli e autonome. Lo stesso ragionamento vale per chi non ha un lavoro o un reddito proprio.

Per questo è importante portare l’educazione finanziaria, come parte di un più grande processo di educazione civica, all’interno delle scuole dell’obbligo. L’associazione FEduF, che è parte dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), ad esempio da anni lavora con le scuole.

 

Anche per questo è importante che l’occupazione femminile cresca, come anche quella dei giovani.

Solo con l’ingresso nel mercato del lavoro e l’ottenimento di un proprio reddito è possibile emanciparsi, mentre tramite l’educazione finanziaria si ottiene una certa autonomia di gestione di quel reddito e si diventa in grado di compiere scelte economiche consapevoli e autonome.

Anche le nuove generazioni hanno bisogno di conquistare presto la loro indipendenza economica per contribuire a un cambiamento in positivo della società.

 

Secondo i dati dell’ultimo Gender Equality Index del 2022 le donne in Italia hanno avuto poco tempo per se stesse e anche l’Europa conferma la stessa tendenza. Perché secondo te?

Tra gli obiettivi della Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026 presentata dal governo c’è anche il dominio del tempo. Questa è la sfida delle sfide. Se non viene alleggerito il carico di lavoro domestico che troppo spesso ricade su di loro, tante donne non saranno mai realmente libere di scegliere. Sappiamo che molte, infatti, scelgono di non dedicarsi alla carriera perché non riescono a conciliare lavoro domestico e lavoro retribuito.

Le difficoltà maggiori sono legate soprattutto alla cura di figli, e quando sentiamo che “molte donne non vogliono lavorare” dovremmo sempre domandarci se si tratta di una scelta libera o condizionata. Al fine di ridistribuire il lavoro di cura all’interno dei nuclei familiari occorre intervenire su norme sociali non scritte, che la società tende a interiorizzare, e sull’educazione, fin dall’infanzia.

Per esempio in Finlandia, fin dalla scuola materna, insegnano a tutti i bambini i lavori di casa,  ed è infatti uno dei paesi in Europa con il tasso più basso di disparità di genere. L’educazione domestica diventa così un gioco, ma funzionale a rompere gli stereotipi sui ruoli.

 

In che modo potremmo avvicinarci al modello finlandese?

Bisogna partire dalle scuole, ma anche dai servizi alle famiglie e ai bambini. Ne sono un esempio gli asili nido o i congedi parentali sia per lui che per lei, ma retribuiti. Questi congedi non devono portare alla riduzione del reddito della famiglia, perché altrimenti si rischia che non vengano utilizzati. Un’altra soluzione è rappresentata dai congedi di paternità obbligatori di tre mesi, in cui l’uomo è obbligato a stare a casa con i propri figli.

 

Cosa fa il Laboratorio Minerva e qual è il vostro approccio per quanto riguarda l’identità di genere?

Minerva è un laboratorio interdisciplinare su disuguaglianza e identità di genere che abbiamo fondato nel 2017 . All’inizio eravamo in nove e ora siamo venticinque. Crediamo molto nel rapporto-scambio intergenerazionale e fanno parte del laboratorio dottorandi, ricercatrici e attivisti/e.

Il nostro è un approccio intersezionale e multidimensionale, che non si limita alla sola differenza uomo/donna, ma che tiene conto delle differenze dei singoli individui in base, ad esempio, alla provenienza geografica o alla classe sociale. Potremmo definire il nostro come un luogo di incontro con uno sguardo rivolto al mondo. La nostra attività di ricerca è incentrata principalmente su progetti europei.

 

Nel Regno Unito, per la prima volta nella storia, sono stati introdotti l’identità di genere e l’orientamento sessuale nei censimenti. Quali sarebbero i risvolti a livello lavorativo e sociale se anche l’ISTAT iniziasse a monitorare questi dati?

Questa è una grande sfida per la statistica. Quello che è successo nel Regno Unito rappresenta un passo importante. L’ISTAT ha cercato più volte di fare un passo analogo a livello di censimenti, ma il problema è a monte, nelle norme sociali.

Nel censimento poche famiglie composte da persone dello stesso sesso si dichiarano in termini di orientamento sessuale. Noi abbiamo statistiche al riguardo, ma questi soggetti non si dichiarano partner se non in minima parte. Non possiamo distinguere la famiglia composta da due sorelle che vivono insieme rispetto, ad esempio, a una famiglia composta da due donne che si amano. Lo stesso vale per gli uomini.

Il tema è anche e soprattutto far sì che ciascuno si senta libero di dichiarare il proprio orientamento sessuale. Nell’ultimo censimento ho collaborato con ISTAT per creare domande specifiche su questo tema, ma il tasso di risposta è risultato basso e questo ci dice che la discriminazione percepita è ancora molto forte, sia sul posto di lavoro che per quanto riguarda la vita sociale. Quello che viene considerato un terreno delicato viene spesso occultato, con il risultato che le nostre statistiche non sono leggibili. Non basta un istituto centrale di statistica disposto a inserire le domande: è necessario creare un contesto dove le persone possano rendersi visibili, laddove l’invisibilità è una tutela.

 

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