“L’iniziativa imprenditoriale? In Italia abbiamo bisogno di liberarci da procedure troppo lunghe e la pandemia ci ha dimostrato che siamo un Paese in grado di andare più veloce”. Edith Forte è la leader di Fortebìs, un’azienda che ha sfidato le difficoltà della pandemia di Covid-19 e che è riuscita a crescere grazie alla forza della sua squadra, composta principalmente da donne
“Il cavallo di razza si riconosce perché scalcia”. Edith Forte, 53 anni, architetto, nata e cresciuta a Roma, è proprio uno di quei cavalli di cui parla quando descrive le caratteristiche di un talento: dopo una laurea in Architettura a La Sapienza, una gavetta in tanti studi professionali che però non apprezzavano abbastanza le sue doti, ha deciso di mettersi in proprio e fondare Fortebìs, una compagnia di architetti e ingegneri. La società – che conta 50 addetti di cui 42 sono donne – è riuscita a resistere alla tempesta portata dalla pandemia e che ha danneggiato moltissime aziende ed attività economiche, registrando una crescita del 40%.
Fortebìs è una società di consulenza in Architettura, Project Management e Design, che oggi sviluppa progetti per grandi brand, banche e aziende di diversi settori in tutto il mondo. Una realtà che deve il suo successo alla sua CEO, Edith, e a tutte le persone del team che mettono al suo servizio passione e professionalità. Ma quali sono gli altri elementi che fanno vincere una squadra e che rendono un business sostenibile e di successo, nonostante le difficoltà? E quali sono gli ostacoli che limitano, nel nostro Paese, l’iniziativa imprenditoriale, in particolare quella delle donne? Dealogando ha parlato di questo – e di molto altro – proprio con Edith Forte.
Ci racconti come è iniziata la sua esperienza imprenditoriale.
All’inizio della mia carriera, come tutti i neolaureati, ho iniziato a lavorare negli studi di architettura per fare esperienza, ma venivo allontanata perché ero una che come tutti i giovani voleva cambiare le cose, migliorarle e non far perdere occasioni alle aziende. Mi sono ritrovata con tante porte chiuse davanti, perché mi dicevano ‘sei appena arrivata, cosa vuoi fare?’.
Arrivata a 32 anni mi sono chiesta, visto il contesto, che opportunità di carriera ho? Allora sono andata in banca per chiedere dei finanziamenti e ho iniziato così la mia grande impresa. La differenza l’hanno fatta i professionisti che mi hanno seguito, tanti lavorano con me ancora oggi. Quando tutto è cominciato mi sono accorta che ispiravo fiducia nelle persone, quindi sono arrivati i primi clienti. Ma la vera forza, nel lungo periodo, è stata – ed è ancora oggi – la squadra: mi sono affiancata dei veri talenti naturali ed è stata la rete di competenze che siamo riusciti a costruire a traghettarci verso il successo. Ho scoperto che il vero valore aggiunto della professione è la sovrapposizione e unione di diverse competenze. Penso di essere stata capace di avere una visione e di aver allineato la mia squadra su quella visione.
È difficile trovare e riconoscere i talenti per costruire una squadra vincente?
I talenti hanno delle caratteristiche ben precise. Noi abbiamo creato una vera e propria carta dei valori su questo, a livello aziendale. La competenza pian piano si forma, ma il talento è un’attitudine caratteriale: il cavallo di razza si riconosce perché scalcia, e generalmente le aziende non sanno gestire personalità di questo tipo. Le persone con un talento, poi, sono attente, affidabili, proattive, trasparenti, lavorano bene in squadra e hanno valori come equità, attenzione e precisione.
Per costruire un team vincente è necessario avere il giusto mix di lavoratori con caratteristiche diverse e complementari. Secondo me le persone, infatti, possono essere divise in tre categorie: gli innovatori, che sono quelli che scalciano, che vogliono sempre fare di più, che partono in quarta e che spesso devono anche essere “frenate”; i follower, le persone calme con un approccio sempre analitico, attento alla valutazione di ogni aspetto di qualcosa, fondamentali perché danno un ordine alle idee degli innovatori. Poi ci sono gli scettici, i conservatori, quelli che si oppongono sempre alla novità, al cambiamento. Se sai compenetrare queste tre nature, hai un team che può arrivare ovunque e noi cerchiamo di individuare la natura di chi lavora con noi già in fase di recruiting.
La sua azienda nell’anno della pandemia è cresciuta del 40%. Qual è stato il vostro valore aggiunto, quello che ha permesso al business non solo di sopravvivere, ma anche di ingrandirsi? La parola del 2020, anche un po’ abusata, è stata resilienza, ci racconti in che modo siete riusciti a non soccombere alle difficoltà.
Secondo me la parola esatta non è resilienza, che richiama più dei concetti legati a fermezza e staticità. Secondo me si dovrebbe parlare di assenza di paura. Per quanto è riguardato me e Fortebìs, avevo la mia azienda e la mia famiglia da portare avanti e, quando tutto è cominciato, mi sono detta che non mi potevo permettere di soccombere alla paura. Ho avuto il terrore di perdere 20 anni di lavoro.
È stata soprattutto l’internazionalizzazione della nostra azienda a darci una mano, a fare in modo che non ci mancassero mai i clienti. Poi c’è da dire che abbiamo beneficiato dello snellimento di molte procedure burocratiche e della loro velocizzazione, il che ci ha dimostrato che quando si vuole in Italia si può sia snellire che velocizzare. La pandemia ha fatto intravedere a questo paese tantissime opportunità che mi auguro sarà all’altezza di cogliere e sviluppare maggiormente.
Proprio su questo punto: quali passi deve compiere ancora l’Italia per adeguarsi agli standard europei per quanto riguarda innovazione e digitalizzazione? Di recente il Paese ha visto crescere il suo ecosistema startup, ma sembra che il nostro tessuto economico, caratterizzato per lo più da pmi, abbia difficoltà con i grandi investimenti in questa direzione.
Innanzitutto siamo molto indietro in quanto a valutazione del business plan e della bontà di un’iniziativa imprenditoriale. Il passo più urgente da fare è semplificare le procedure: nessun governo fino a oggi è riuscito davvero in questo. Gli enti o le amministrazioni che devono fare quelle valutazioni rimangono ingessate in mezzo a lungaggini burocratiche e procedimenti troppo complessi: fra tutti i progetti che arrivano, e che valuto anche io stessa, solo un 20% vede la luce.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla pandemia, stando tutti a casa durante il lockdown, è proprio questa: i processi devono essere semplificati, oppure tutto rimane bloccato. Abbiamo toccato con mano il fatto che se vogliamo possiamo semplificare e portare a casa dei risultati nella metà del tempo, e questo in tutti i settori. Perdere tempo significa perdere valore.
In generale, poi, per aiutare gli imprenditori è necessario abbassare la tassazione, arrivata a un livello tale da limitare l’iniziativa privata: oggi persiste un sistema fatto apposta per non generare sviluppo. Una situazione le cui conseguenze ricadono principalmente sui giovani; dobbiamo assolutamente svecchiare il paese e fare largo ai giovani, che sono pieni di entusiasmo e proposte e che stanno aspettando un riconoscimento del loro talento.
Oltre ai giovani, anche le donne hanno molte difficoltà in Italia nel fare impresa. Se lei fosse a capo del ministero per le Pari Opportunità, quali sono i primi interventi che metterebbe in campo per migliorare la condizione femminile riguardo il lavoro e l’impresa? Il World Economic Forum, in un recente report, ha affermato che occorreranno ancora ben 267,6 anni per annullare il Gender Gap.
Per le donne questo periodo è stato particolarmente drammatico e, con i figli e il lavoro da gestire, hanno dimostrato capacità di rilancio e proattività mai viste. L’anno scorso è iniziata una guerra e la guerra tira fuori all’essere umano abilità che non sapeva di avere. La donna si trova ancora oggi in Italia di fronte alla scelta se avere figli o fare carriera: il diritto al lavoro e all’iniziativa imprenditoriale va incentivato, anche perché – cosa che ho riscontrato io stessa per quanto riguarda le mie dipendenti – è dopo che si diventa mamme che spesso si riesce a dare il proprio meglio: un figlio è un valore sia nel contesto di vita privata che lavorativa, per la proattività e il pensiero positivo che la maternità innesca.
A livello imprenditoriale alle donne non devono più essere lasciate le briciole degli uomini e devono essere incentivati per loro percorsi manageriali che le portino alla guida di grandi realtà. Non vengono date abbastanza chance alle donne, ma soprattutto non vengono date le stesse chance alle donne che tornano a lavoro dopo aver fatto un figlio. La cosa più importante è quindi fornire degli strumenti alle lavoratrici al fine di aiutarle a gestire il work-life balance.
Si tratta, come ben sappiamo, per lo più di una questione culturale: gli uomini “mediterranei”, diciamo, non vivono ancora bene l’emancipazione femminile, e questo gap va superato senza fare la guerra con gli uomini. Le donne con le donne, peraltro, devono continuare ad aiutarsi, a darsi manforte, ad essere solidali l’una con l’altra. Per quanto riguarda le politiche di welfare che si potrebbero intraprendere e gli strumenti che si potrebbero adottare, dovremmo guardare di più agli esempi virtuosi di alcuni vicini europei: in Francia, ad esempio, le donne sono molto sostenute dallo Stato nei loro percorsi lavorativi e di carriera.
Con lo smart working intanto abbiamo fatto dei grandi passi avanti per quanto riguarda la flessibilità lavorativa.
Sì e penso sia necessario, in Italia, modificare la struttura dei contratti dipendenti. Nella mia azienda, ad esempio, non esiste il badge, non si timbra alcun cartellino e, in generale, si lavora per obiettivi; soprattutto, si coltiva una cultura della fiducia nei confronti del lavoratore.
I contratti, in generale, sono diventati, soprattutto alla luce del contesto attuale, troppo rigidi. È la partita Iva la formula più flessibile, a questo punto, e che sempre più spesso scelgono gli stessi lavoratori. Oggi finalmente si lavora più per obiettivi, il che rende il lavoratore più responsabile. Oggi l’imprenditore e il dipendente hanno lo stesso obiettivo: arrivare a dei risultati.
Da innovatrice, secondo lei quali sono i business vincenti dei prossimi anni? Quali cambiamenti si cristallizzeranno in questa società sconvolta – ma che ha visto anche trasformazioni ad impatto positivo – e quali invece sono destinati all’oblio?
Pensiamo al settore alimentare, al farmaceutico, alla logistica, all’information technology: abbiamo visto una crescita esponenziale di tutti questi settori e, come succede tutte le volte che la società viene attraversata da una grande crisi che porta a grandi trasformazioni, c’è ci perde e chi ci guadagna.
Lo scenario futuro del business dipenderà dalla futura evoluzione della situazione e dall’efficacia dei vaccini: è chiaro che, se si svilupperà una variante che annullerà lo sforzo e i risultati della campagna, allora ci ritroveremo con la stessa situazione di oggi, con un trend che vedrà sempre le aziende di quei settori a generare i maggiori profitti. Poi c’è da dire che bisogna saper cogliere le opportunità dei cambiamenti: per quanto riguarda il mio settore e quello immobiliare, ad esempio, l’arrivo della pandemia ha completamente modificato i trend di mercato e oggi le persone hanno esigenze che non avevano in passato. Il nostro futuro dipenderà dal perpetuarsi di questo stato di “guerra”, o meno.
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