Il Pnrr è ormai da tempo il centro della politica italiana e il campo principale su cui valutare l’azione del Governo. Transizione ecologica e digitale, Mezzogiorno: quali sono i principali rischi e opportunità nel nuovo scenario della guerra in Ucraina

Il Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è da un po’ di tempo a questa parte tra i principali protagonisti della vita e della discussione politica nel nostro Paese. Sia trampolino per rilanciare il Paese dopo la devastazione sociale ed economica causata dal Covid, sia occasione per disegnare l’Italia del futuro, soprattutto sul verde e sul digitale. Con queste premesse, non poteva che diventare per il nostro dibattito pubblico anche una sorta di “libro dei sogni” dove far entrare un po’ di tutto, ma i veri problemi stanno più che altro nella macchina amministrativa italiana. Quanto c’è di buono nel Pnrr e come implementarlo realmente per non perdere un’occasione storica? Lo abbiamo chiesto a Piercamillo Falasca, consigliere economico del Ministero per il Sud e la Coesione territoriale, osservatore privilegiato del “Piano” in questo anno di governo.

 

Se dovesse spiegare in poche parole cosa è il Pnrr, come lo descriverebbe?

piercamillo falasca
Piercamillo Falasca, Consigliere di Mara Carfagna al ministero per il Sud

Anzitutto, lo racconterei segnalando che il Piano non è solo “soldi”. Gli ingenti investimenti finanziari a disposizione dell’Italia sono una leva con cui realizzare un progetto ambizioso di innovazione e di riforme. Questo è l’obiettivo: far sì che l’Italia esca dalla pandemia con lo slancio necessario per una transizione verso un modello socio-economico più orientato ai bisogni del XXI secolo che al welfare state del XX. Transizione ecologica e digitale, politiche attive del lavoro, formazione tecnico-professionale, una rete infrastrutturale avanzata, una sanità quanto mai prossima al cittadino.

 

Il rischio libro dei sogni è alto, non crede?

Non credo che gli obiettivi del Piano siano sogni, semmai il rischio che dobbiamo sventare è di non riuscire come Paese a raggiungerli. Il Pnrr sta facendo emergere una fragilità intrinseca della macchina pubblica italiana: sappiamo cosa fare, ma non abbiamo sufficienti persone per progettare e fare. Spendere soldi in realtà è difficile, è strano dirlo. Gli uffici tecnici dei Comuni e delle Regioni, soprattutto al Sud, sono pressoché sguarniti o molto sottodimensionati.

 

Che l’Italia faccia fatica a spendere sembra un paradosso…

Se dobbiamo accreditare soldi pubblici su conti correnti, siamo fin troppo bravi e generosi: pensiamo a certe pensioni concesse troppo facilmente o al reddito di cittadinanza privo della gamba della formazione e riqualificazione professionale dei beneficiari. Se dobbiamo progettare e investire in poco tempo le risorse per “costruire cose”, siamo più in difficoltà. Le politiche del personale della Pa nei decenni passati avevano fatto più da ammortizzatore sociale che da promozione di qualità e talento.

A questo aggiungiamo il blocco del turnover degli ultimi venti anni e la scarsa attrattività del “posto pubblico” per i laureati in materie tecniche. Ora che la macchina “centrale” del Pnrr è davvero partita a pieno ritmo, la priorità è irrobustire la macchina che dovrà attuarlo su base locale. Le faccio un esempio per capire: il piano destina in modo dettagliato e puntuale 5,2 miliardi di euro ad asili nido, palestre, mense e nuova edilizia scolastica.

È un programma ambizioso, ispirato a una filosofia di fondo necessaria come la liberazione delle famiglie, e delle donne in particolare, dai troppi ostacoli per una conciliazione sostenibile di lavoro e cura dei figli. Ma per realizzarlo i comuni italiani di ogni dimensione sono chiamati a uno sforzo epocale, una vera e propria corsa contro il tempo. Aiutarli dotandoli di nuovo capitale umano è essenziale.

 

Come pensiamo di crescere e di sostenere il sistema pensionistico di domani, ad esempio, se al Sud ancora oggi due donne su tre in età da lavoro non sono occupate? Come pensiamo di crescere se non siamo capaci di sfruttare davvero l’enorme potenziale turistico o agroalimentare del Sud?

 

Il Piano dedica circa un terzo delle sue risorse – quasi 70 miliardi di euro – alla transizione ecologica. Lei non crede che la guerra in Ucraina abbia quanto meno rinviato gli obiettivi green italiani ed europei? Stiamo per riaccendere le centrali a carbone…

Anzi, al contrario, credo che sia la crisi energetica che era iniziata prima della guerra e il conflitto stesso ci inchiodino ai ritardi accumulati negli ultimi anni. La pandemia ha mostrato quanto la nostra interconnessione con la Cina e gli altri Paesi a cui abbiamo delegato il ruolo di “fabbrica” si sia trasformata in una debolezza.

La guerra in Ucraina ci mostra quanto sia stato miope diventare energeticamente dipendenti da un Paese il cui governo ha un disegno egemonico e imperialista alternativo al modello di pace e inclusività dell’Europa.

Oggi la transizione ecologica significa anzitutto autonomia energetica nazionale, oltre che – ovviamente – riduzione del nostro impatto sul pianeta. Se sapremo realizzare questa rivoluzione, penso ad esempio allo sviluppo della filiera dell’idrogeno verde, daremo un nuovo standard energetico di cui potrà beneficiare anche il resto del mondo.

 

Pnrr e Sud. Riuscirà finalmente il Mezzogiorno a colmare lo storico divario di sviluppo che lo separa dal resto del Paese?

Le risorse per una profonda modernizzazione del Sud ci sono, a partire dal massiccio investimento in infrastrutture ferroviarie, portuali, digitali e sociali. Per scelta del governo Draghi e su fortissimo impulso del ministro Carfagna, al Sud è destinata una quota di fondi e di interventi senza precedenti. C’è ora anche la consapevolezza dell’opinione pubblica di essere di fronte a una occasione storica irripetibile, che è la reindustrializzazione del Mezzogiorno d’Italia, che può essere il fulcro strategico di una nuova dimensione euro-mediterranea e di una rilocalizzazione in Europa di produzioni portate in Asia negli ultimi venti anni. La riforma della PA e della giustizia civile – entrambi obiettivi del Pnrr – sono da questo punto di vista cruciali.

Certo, al Sud le fragilità amministrative di cui parlavamo prima sono purtroppo più accentuate e dunque è proprio a Sud che va concentrato il massimo sforzo delle istituzioni nazionali: laddove gli enti locali dovessero essere in difficoltà, lo Stato dovrà saper affiancarli e se necessario sostituirsi ad esso.

 

E se il Sud dovesse non essere in grado di spendere i fondi, è giusto che questi vadano al Nord?

Credo sia un quesito mal posto. Il Pnrr non è un bottino da spartire, ma un insieme di obiettivi da raggiungere. L’Italia intera ha interesse che ogni sua parte sia in grado di raggiungere gli obiettivi programmati e concordati con la UE. Obiettivi non di spesa, ma di risultato. Un’Italia che non superi la frattura Nord Sud non sarà un Paese davvero capace di competere come merita a livello globale. Come pensiamo di crescere e di sostenere il sistema pensionistico di domani, ad esempio, se al Sud ancora oggi due donne su tre in età da lavoro non sono occupate? Come pensiamo di crescere se non siamo capaci di sfruttare davvero l’enorme potenziale turistico o agroalimentare del Sud?