We Are Muesli, pluripremiato studio di design milanese, da anni sviluppa videogiochi narrativi a tema culturale. Claudia Molinari, fondatrice dello studio insieme a Matteo Pozzi, ci ha raccontato dello stato dell’arte dell’industria del videogioco, di cosa significa essere una donna in un ambiente prevalentemente maschile e di quanto ancora c’è da lavorare per riconoscere il videogioco come una forma d’arte a tutti gli effetti
Guardando The Last of Us potreste essere venuti a conoscenza del fatto che questa serie HBO acclamata da critica e pubblico è tratta da un videogioco. E potreste anche aver scoperto che si possono scoprire belle storie, storie emozionanti, profonde, immersive, anche giocando. Meglio tardi che mai. Anche perché, specialmente in Italia, aprire gli occhi su un mercato che nel resto del mondo è al centro di un’espansione notevole, è fondamentale per non rimanere indietro.
Il mondo videoludico è diversificato e composito, perché il videogioco è un medium incredibilmente plastico: creare un gioco può essere un’esperienza complessa e innovativa, foriera di possibilità pressoché infinite. E il gioco può diventare veicolo di riflessioni importanti sul modo che abbiamo di rapportarci al mondo, alla società, alla cultura.
We Are Muesli è uno studio di design indipendente di Milano specializzato nello sviluppo di giochi narrativi a tema culturale, impegnato nella missione di dimostrare che giocare significa creare e diffondere cultura in modo non convenzionale. Il suo ultimo progetto, Madeleines, fonde elementi del classico gioco investigativo alla scoperta, o riscoperta, di capolavori letterari, al centro di una misteriosa e dimenticata corrispondenza avvenuta tra gli scaffali di una biblioteca. A raccontarlo è Claudia Molinari, visual designer, fondatrice insieme allo scrittore creativo Matteo Pozzi di We Are Muesli.
Che cosa vi ha attratto del mondo del videogioco e come avete anche condensato le vostre esperienze pregresse in questa forma d’arte?
L’ingresso nel mondo del videogioco è stato affrontato come una forma di escapismo. Ho iniziato una carriera nel design, nell’art direction, ho compiuto il percorso convenzionale all’interno delle agenzie di comunicazione, ed è lì che ho incontrato Matteo Pozzi con cui ho lavorato per tanti anni. Fino a maturare una necessità, quella di esprimerci in altri contesti, con altri mezzi. Era il 2012 quando Matteo mi ha fatto conoscere un paio di titoli di videogiochi che mi hanno molto colpito perché vi ho trovato un linguaggio molto simile al graphic design. Abbiamo pensato che forse era un ambito cui potevamo avvicinarci. Ci siamo lanciati e non siamo mai tornati indietro.
Si dice spesso che il mondo videoludico sia prettamente maschile, con poco spazio per le donne. Si tratta di una leggenda o l’hai riscontrato?
Non è affatto una leggenda, è un tasto molto dolente di questo settore: c’è una discriminazione, un percepito diverso quando a giocare o a fare i giochi sono le donne, o qualsiasi altra minoranza di genere, di cui non mi posso fare capofila o portavoce. Ci sono stati episodi anche molto brutti: qualche anno fa sono stata attaccata in maniera molto violenta sui social per un’intervista. La donna e le minoranze sono spesso sotto una lente d’ingrandimento, cosa che ti porta a muoverti con cautela.
Recentemente sono stata ospite a un bellissimo festival, Invisiblə, che si è tenuto a Firenze, dove si è provato a raccontare lo stato dell’arte del mondo del videogioco, e la difficoltà che hanno coloro che abitano questo mondo, che siano giocatori o creativi, dell’accettare una kermesse di personaggi diversi dal solito. Il punto è che nell’esperienza videoludica, così come in tanti altri media, c’è sempre stata una dominanza prettamente maschile, all’interno della quale sono stati codificati dei “valori” di mascolinità che anche per l’uomo eterosessuale sono difficile da indossare.
Sappiamo già che i modelli femminili, nella maggior parte dei videogiochi più popolari, sono sessualizzati, ma questo succede anche ai modelli maschili: pensiamo ai fisici imponenti, assolutamente irreali, di certi personaggi. Questa irrealtà, però, ha generato una realtà in cui l’accettazione di altre sensibilità diventa difficile. E non è solo una responsabilità del singolo giocatore che si comporta male, ma di un’industria, di un mondo intero che avalla determinati atteggiamenti.
Qual è l’atteggiamento del mondo culturale italiano nei confronti dell’industria del videogioco?
La cultura “alta” esclude il videogioco e, quando lo include, lo tratta come quello zio di cui ci si vergogna alla cena di Natale. Fortunatamente noi abbiamo avuto modo di lavorare con dei partner culturali che sono illuminati, ma ce ne vorrebbero molti di più. Servirebbero più investimenti, che già sono pochi, figuriamoci se vengono destinati al videogioco.
L’industria indipendente sta cercando di cambiare la percezione comune che si ha sul videogioco, che passa anche da molti luoghi comuni: “se giochi ai videogiochi sei un immaturo”, “i videogiochi violenti incoraggiano all’uso della violenza”, “i videogiochi creano assuefazione”. Alle volte non so se si parla di videogiochi o di cocaina. Ma si stanno facendo passi avanti e in Italia IIDEA, l’associazione di categoria, ha tutta una serie di programmi per fare in modo che si cominci a guardare al videogioco in modo diverso.
Cosa sarebbe necessario fare, secondo te, per cambiare questa narrativa?
Bisognerebbe introdurre il videogioco in ottica persino educativa, nei programmi delle scuole: imparare a fare un gioco può farti imparare tantissimo di te stesso, le soft skill che puoi acquisire sono infinite. Alcuni passi si stanno facendo, attraverso corsi di settore, programmi educativi, ma arrivano dopo il classico percorso scolastico primario, secondario e terziario. Ai più giovani, che vanno ancora a scuola, non è nemmeno offerta come ipotesi la possibilità di costruire una carriera professionale nell’industria del videogioco.
Ma “creare un gioco” è un’abilità innata dell’essere umano. Quando i bambini inventano un gioco stanno progettando. La progettazione di sistemi complessi è una cosa che ai bambini viene naturale. una cosa che facciamo naturalmente ma a un certo punto ci viene detto che non va più bene, che dobbiamo “crescere” e cominciare a imparare e ad acquisire conoscenze nel metodo tradizionale, ossia sui libri. Che sono essenziali, ma non devono necessariamente essere l’unica via.
Come We are Muesli avete sempre creato giochi narrativi a tema culturale: riguardo il vostro ultimo progetto, Madeleines, lo avete definito come “una forma empatica di fare cultura”. In che senso?
Abbiamo sempre cercato di strutturare i nostri personaggi in modo che possano essere l’espressione radicale di un valore: se vogliamo trattare una tematica, ad ogni personaggio destiniamo un valore che vogliamo dare. In Madeleines non sai con quale dei personaggi stai parlando: dentro le sfumature del dialogo devi ricercare chi è che ti sta scrivendo. È uno sforzo di osservazione, di memoria personale, che cerchiamo di reiterare lungo tutta la narrazione. Raramente nei nostri giochi c’è un feedback, un premio quando fai bene qualcosa: nella vita non funziona così. Se vai a un colloquio di lavoro, quando esci lo fai con addosso mille dubbi. L’esito lo saprai solo alla fine della “run”.
I nostri giochi molto simili a quanto accade nella vita reale, perché io non penso che un gioco debba essere per forza di cose “divertente”: un gioco è una simulazione, che può essere divertente come anche triste. È un modo per dare un senso a qualcosa che abbiamo in testa. Ecco perché per alcuni giochi possono anche essere respingenti. Ma crediamo che i dialoghi, la narrazione, la scelta di personaggi non scontati e ognuno con un valore, il dare al giocatore la responsabilità di osservare e comprendere, passo dopo passo, i loro caratteri, sia un modo per rappresentare “videoludicamente” il concetto di empatia.
Ultimamente si è diffusa la cultura della “gamification”, ossia il portare meccaniche del gioco all’interno della formazione aziendale. Cosa ne pensi?
“Gamification” è una parola in cui noi non ci riconosciamo molto: nelle meccaniche di gioco che noi mettiamo in campo, tendenzialmente, o si vince tutti o non vince nessuno. E se c’è uno scopo, di solito, non è mai la vittoria ma è proprio il gioco, il percorso che hai compiuto giocando.
La gamification trasla nella cultura aziendale le dinamiche del gioco “convenzionale”, che ragiona per obiettivi da raggiungere, che rende il giocatore succube della meccanica e meno della narrazione. Per noi, invece, ad essere centrale è la storia. Ciò che facciamo è rendere l’utente “ambasciatore” di un contenuto: devono aver voglia di condividere quel che hanno provato giocando, le esperienze che hanno vissuto, cosa hanno imparato. Anche il fatto che bisogna per forza “vincere”, è un modo convenzionale di pensare al gioco.
E il vostro è invece un modo “non convenzionale”?
Nel mondo mainstream del videogioco il marketing la fa spesso da padrone e spesso alcuni titoli sono molto simili tra loro. Noi abbiamo deciso di utilizzare un linguaggio che racconta storie dimenticate o che, convenzionalmente, non dovrebbero essere trattate dai videogiochi. Come fai, per esempio, a parlare di un evento storico drammatico giocando?
Noi cerchiamo di mostrare che è possibile, e che si può imparare anche attraverso il gioco. Se le istituzioni della cultura “alta” si sforzassero di conoscere alcuni titoli di tanti sviluppatori e sviluppatrici indipendenti, incentrati su tematiche importanti, questa sarebbe una consapevolezza più diffusa. Negli ultimi 15 anni qualcosa si sta muovendo e io sono davvero orgogliosa di aver iniziato dieci anni fa a questo sogno e aver contribuito alla storia del videogioco in Italia.
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