«Far emergere la disparità di genere nel lavoro e prenderne piena consapevolezza rappresenta un valore. In questo modo le aziende ne parlano e iniziano ad agire per ridurre il differenziale». Claudia Strasserra è Chief Reputation Officer di Bureau Veritas, azienda leader a livello mondiale nei servizi di certificazione legati, tra gli altri, alla responsabilità sociale e alla parità di genere
Secondo un report delle Nazioni Unite, che mostra l’indice di crescita inclusiva delle diverse regioni del mondo, l’Italia, con un punteggio di 63.7, si posiziona prima della Grecia (45.3) e del Brasile (46.3), tra le economie sviluppate. Restano comunque lontani e difficili da raggiungere i livelli di parità di genere presenti in paesi come la Finlandia (83.5), la Slovacchia (91.7) o l’Islanda, un esempio tra tutti, con il massimo del punteggio (100).
Inoltre, se si osserva la panoramica di UN Women, dove sono riportati i progressi fatti nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, solo il 26% dei paesi dispone di un sistema completo per monitorare gli stanziamenti di bilancio per le questioni di genere. Non solo, il report mostra anche come il soffitto di cristallo sia ancora intatto e come le donne in posizioni manageriali corrispondano tutt’ora a meno di una su tre. Di queste, la maggior parte percepisce uno stipendio inferiore a quello dei colleghi uomini che svolgono lo stesso lavoro.
Abbiamo discusso di questi temi con Claudia Strasserra di Bureau Veritas, una delle società pioniere del “Sistema di certificazione della parità di genere” introdotto dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), con l’obiettivo di accompagnare le imprese nel loro percorso verso il raggiungimento della gender equality sul posto di lavoro.
Perché è importante che un’azienda si certifichi per quanto riguarda la parità di
genere?
È la certificazione di cui si parla in Italia in questo momento, anticipata dal PNRR e introdotta dai decreti ministeriali che si sono succeduti: si tratta della UNI PdR 125, ovvero l’unica certificazione che dà diritto agli sgravi sui contributi previdenziali e alle premialità nei vari bandi e gare pubbliche.
Tra i suoi vantaggi c’è la possibilità, per un’azienda, di prendersi del tempo per ragionare sui temi della parità di genere e la possibilità di misurarsi con i tanti KPI (Key Performance Indicators) qualitativi e quantitativi. C’è anche un vantaggio legato agli sgravi contributivi, che sono alla portata di tutte le organizzazioni che si certificano.
Qual è l’iter attraverso il quale si può ottenere la certificazione? Non c’è il rischio di alimentare il pink washing in azienda?
Il processo per ottenere la certificazione è stringente, perché chiede all’organizzazione di lavorare in concreto su determinati obiettivi. La ottiene chi adotta un sistema di gestione, che prevede, tra l’altro, un piano strategico per migliorare le performance sulla parità di genere.
In più è necessario raggiungere un punteggio minimo, equivalente al 60% dei punti a disposizione. Come società, devi aver dimostrato un impegno e il piano strategico è l’evidenza più importante. Per questo penso di poter affermare che la certificazione è un’arma per contrastare il pink washing.
Non solo, la certificazione presuppone l’intervento di un soggetto indipendente di parte terza, qualcuno che non ha interessi nell’azienda che si certifica, e che viene chiamato a raccogliere le prove che quello che l’azienda dice corrisponda a verità.
Se io dico che ho fatto formazione sulla parità di genere a tutta la popolazione aziendale non è sufficiente: in quanto ente di verifica, voglio vedere le prove concrete. Non solo, ogni dodici mesi c’è una verifica di mantenimento. L’azienda deve dimostrare di aver mantenuto vivo e vitale il sistema di gestione e di aver migliorato le performance.
Sapresti indicarmi degli esempi di aziende che hanno richiesto la certificazione? Quali situazioni avete dovuto affrontare?
Se un’azienda ha un divario retributivo uomo-donna dell’8%, questo è considerato virtuoso. La situazione è così difficile in questo momento in Italia che la UNI/PdR 125 (la certificazione sulla parità di genere, ndr) accetta un gender pay gap sotto la media nazionale. L’importante è che ci sia la volontà di far scendere questo divario, fino a portarlo allo zero. È un processo sfidante, perché viene chiesto all’azienda di migliorarsi costantemente, sino al raggiungimento della piena parità.
Per alcuni indicatori quantitativi non basta essere allineati alla media: per esempio, per ottenere dei punti non è sufficiente avere una percentuale di donne dirigenti allineata alla media del settore di riferimento. All’organizzazione viene richiesto di essere virtuosa e, quindi, di raggiungere la percentuale più alta possibile di donne in posizioni apicali.
Proprio in virtù del raggiungimento di alti standard di equità, il benchmark si calcola tenendo conto del settore di appartenenza: in quello edile, ad esempio, sappiamo esserci poche donne, e il confronto verrà effettuato con settori simili e non con quello dell’educazione, dove c’è un numero maggiore di lavoratrici donne.
Abbiamo certificato aziende diverse tra loro, dal farmaceutico agli studi legali, e c’è grande eterogeneità. Finora a compiere gli sforzi maggiori sono state le aziende private, ma non ancora la pubblica amministrazione. Per quanto riguarda la dimensione, abbiamo visto soprattutto aziende medio grandi avvicinarsi a questa certificazione, ma i dati Accredia ci indicano che si sono certificate anche realtà più piccole.
Perché le prime a muoversi sono state le grandi aziende? Tra quanto vedremo un cambiamento tangibile?
Le grandi aziende sono state spinte dalla consapevolezza che la certificazione rappresenta il coronamento di impegni e progetti già consolidati e da una motivazione di tipo reputazionale. Tra le realtà che abbiamo certificato ci sono Intesa San Paolo, Autostrade per l’Italia o il gruppo Sole 24 Ore, rappresentanti di settori molto diversi.
Chi si certifica ha capito che in un ambiente in cui c’è “diversity” circolano più idee, e quindi più innovazione. La prospettiva degli sgravi e dei contributi è inoltre sempre allettante.
Questa, comunque, non è una rivoluzione che si fa dal giorno alla notte: magari ci vorranno mesi o anni, ma l’importante è riconoscere l’esistenza di un gap di genere nel mondo aziendale e stabilire la direzione da prendere, agendo concretamente giorno dopo giorno.
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