«Quando si dice che l’Italia è una Repubblica basata sui nonni è vero. Il bello di avere un figlio è che ti attiva delle resistenze biologiche per cui difficilmente ti arrendi. La strada la trovi, ma la carriera lavorativa rallenta. Ne vale la pena? Sì. Tutte le scelte sono lecite, dal farne altri, continuare o smettere di lavorare. Io ho fatto tanta analisi per liberarmi dal senso di colpa, che è la chiave educativa che hanno usato nei miei confronti. È anche importante capire cosa si vuole nella vita». Sono le parole di Vera Gheno, sociolinguista, autrice e attivista.
Secondo l’ultima edizione del rapporto Global Employment Trends for Youth dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), con il 75% delle aziende che adottano le più recenti tecnologie come i big data, il cloud computing e l’IA, “non c’è da stupirsi che molti giovani restino indietro nel mercato del lavoro”.
Il tasso di disoccupazione giovanile è attualmente del 13%, pari a quasi 65 milioni di persone. Secondo l’ILO, la ripresa occupazionale post-pandemia non è stata vissuta da tutti nello stesso modo. Si evidenzia, infatti, che “i giovani di alcune regioni e molte giovani donne non vedono i benefici della ripresa economica”.
Una delle ragioni di questi livelli di disoccupazione giovanile è la discrepanza tra le qualifiche conseguite dai giovani e le competenze richieste dai lavori di oggi. “Gli squilibri educativi sono aumentati perché l’offerta di giovani istruiti comincia a superare l’offerta di posti di lavoro per le persone altamente qualificate nei Paesi a medio reddito”, afferma l’ILO.
Abbiamo incontrato Vera Gheno in occasione del Catania Book Festival in cui partecipava come speaker a un talk sull’editoria di genere. Insieme abbiamo discusso di social media, quote al femminile nel mondo del lavoro, dati, autorevolezza, senso di responsabilità, società performativa e la sua esperienza come madre lavoratrice.
Esiste davvero una divisione tra lavoro e vita privata?
Non mi è mai capitato nella vita di incontrare qualcuno che riuscisse a dividere la vita in compartimenti stagni. Siamo dei blob che attivano di più certe parti rispetto ad altre a seconda di come agiscono e si muovono. Quello che siamo sul lavoro è connesso a quello che siamo anche al di fuori. Ancora di più adesso, nella società dell’iperconnessione. Non si possono separare in maniera netta la faccia pubblica da quella privata o la sfera professionale da quella privata. Secondo me ci sono dei principi di equità, rettitudine morale, giustezza ancora più che giustizia, di cittadinanza attiva, che si portano sul lavoro.
Questo consiste nell’accettare una gara equa e anche nel riconoscere la necessità delle quote al femminile, perché senza esse il potere tende a riprodursi uguale a se stesso. Comprendo il punto di vista secondo il quale una persona non voglia essere assunta solo in quanto tale, ma nella big picture può avere senso che ci sia un posto di lavoro allocato alle donne o alle persone con disabilità. Rappresenta un inizio.
La base del problema è che la società ci spinge nella direzione del solipsismo, ovvero quel modo di pensare secondo il quale esisto solo io con i miei bisogni, le mie necessità e i miei voleri. Facciamo fatica a pensare in maniera collettiva e a percepirci come parte della collettività. Questo va in contrasto con una caratteristica fondativa dell’essere umano, che è il suo essere un animale sociale. Vuol dire che io mi chiedo quanto quello che faccio influisce sugli altri. Come posso portare nel lavoro questi principi? Ad esempio, se sei femminista non ti rivolti mai contro una sorella, ma neanche contro un fratello. Oppure, se una donna sul posto di lavoro denuncia una situazione di stalking, le dai spazio e, supportandola, non senti di rinunciare a qualcosa della tua carriera. Non fai carriera a discapito delle altre persone.
Quindi nella vita privata e sul posto di lavoro quanto è importante, se lo è, decostruire certe visioni sulla società?
Preferisco un verbo come “rimettere in discussione” o “relativizzare”. Decostruire mi fa pensare a un palazzo che io devo distruggere. Invece, penso ci sia da prendere ciò che già abbiamo, come per esempio la visione patriarcale della società o la visione binaria dei generi, e renderci conto che non sono l’unica lettura possibile della realtà. Esistono altri sguardi sulle persone. Alcuni punti di vista che abbiamo riconosciuto come universali sono solo alcuni dei possibili.
Questo non vuol dire distruggere tutto quello che è stato. Non si tratta di un’iconoclastia, ma semplicemente di accettare che c’è dell’altro. Siamo abituati ad un canone letterario tutto maschile, ma, appena si inizia a studiare la letteratura mondiale, ci si rende conto che ci sono moltissime scrittrici di cui non si sapeva l’esistenza. Avviene perché qualcuno ha deciso che non facessero parte del canone, pur avendone il diritto. Questo canone, che ci è stato tramandato, si è autorigenerato come fanno i gruppi di potere, che cercano di riperpetuarsi uguali a se stessi.
Qual è la tua esperienza come madre lavoratrice?
Quello che io ho imparato facendo una figlia a 32 anni da assegnista di ricerca è che la strada poi la trovi. Ma io ho beneficiato di un quadro familiare che è intervenuto dove non c’era l’asilo nido. Quando si dice che l’Italia è una Repubblica basata sui nonni è vero. Il bello di avere un figlio è che ti attiva delle resistenze biologiche per cui difficilmente ti arrendi. La strada la trovi. Rallenta la carriera lavorativa. Ne vale la pena? Si. Tutte le scelte sono lecite: farne altri, continuare o smettere di lavorare. Ci dobbiamo liberare da questo atavico senso di colpa dell’aver preferito la carriera ai figli. Io ho fatto tanto analisi per liberarmi dal senso di colpa, che è la chiave educativa che hanno usato nei miei confronti e ci provano ancora. C’è anche da capire cosa si vuole nella vita.
C’è stato un momento in cui io volevo tantissimo una figlia femmina, che ho cresciuto da sola perché ho divorziato subito dopo. Sarei altrove se non ci fosse stata lei? Probabilmente si. Mi dispiace? No. Guardo poco indietro, è andata così e poi si guarda avanti con quello che si ha a disposizione. Non ti fare dire da nessuno quando avere figli perché se aspetti il momento giusto non lo farai mai, se vuoi farlo. Quando l’ho detto alla prof con la quale lavoravo, mi ha risposto che avrei prima dovuto finire il progetto di ricerca. Questo è inammissibile. Ci sono persone che tendono a giocare con la vita dei propri collaboratori e trici in nome di non si sa cosa.
Parliamo di dialogo costruttivo tra persone e generazioni. Quando c’è la rabbia, come si fa a non essere violenti nel confronto?
Una cosa che ho imparato da Michela Murgia è stata quella di dare valore alla rabbia. Relativizzare funziona con quelle persone che accettano il tuo pensiero, anche diverso dal tuo. Ci si può confrontare quando c’è la possibilità di mediare e disputare, come riporta nel suo libro “Il conflitto non è abuso” Sarah Schulman. A volte bisogna arrabbiarsi, ma prima si attivano armi di conflitto pacifico. Mi misuro con molte persone, con cui però si parte da una condizione di rispetto reciproco.
Alla fine del suo ultimo libro, “Chi ha paura del Gender”, Judith Butler sottolinea come la richiesta minima per instaurare una discussione con qualcuno è che almeno quel qualcuno sappia di cosa sta discutendo. Se ci pensi in molti casi non è così. Ad esempio, se tu chiedi a molti esponenti politici che criticano l’ideologia gender di cosa si tratta, non lo sanno spiegare, perché non si sono informati. È anche per questo che non capisco la necessità di posizionarsi continuamente su qualsiasi cosa.
Anche perché rielaborare un pensiero richiede tempo.
Esatto, richiede approfondimento e studio, quindi fatica. Molte persone, nel mondo orizzontale di oggi, questo elemento della fatica e del sapere tendono a dimenticarselo. Non è sufficiente leggere quattro titoli di giornale e poi dare la propria opinione. È più profondo il lavoro del sapere.
L’algoritmo e i social non sembrano incoraggiare questa direzione. Rappresenta la ricerca di approvazione in una società performativa ed è radicata dentro di noi. Le persone che non sentono questa necessità sono probabilmente una minoranza.
Vero. Il punto è: quanto è importante per te assecondare l’algoritmo? Nel mio caso, la solidità è data dall’età. Ormai ho un’età per cui molti degli attacchi che mi arrivano me li faccio scivolare addosso. Quello che dico quando parlo con i più giovani è: se tutta questa sovraesposizione, da me non voluta, mi fosse arrivata a 20-25 anni, non so se avrei retto. Perché quando vieni criticata di continuo, spesso in modo non costruttivo, la tua autostima ne risente. Capisco che ci sia un meccanismo di attivazione del benessere legato alla quantità dei like che tu riesci ad avere. Lì secondo me bisogna ragionare su come si usano i social.
Più aumenta l’audience, più aumenta la responsabilità. Ogni volta che pubblico un contenuto, l’atterrimento da “Come verrà percepita questa cosa?” c’è, anche se ho 50 anni. Poi lo rileggo e mi chiedo se ho detto davvero quello che penso, senza pensare a far felice qualcun altro.
Nel mondo del lavoro e nella vita di tutti i giorni come si può essere considerati autorevoli?
“Know your shit”, ovvero aumentando le proprie competenze. Per ribattere è poi importante sapere cosa riportano i dati, che diventano incontrovertibili. Ad esempio, quando viene detto che non è vero che il primo figlio penalizza le donne, abbiamo i dati dell’ISTAT che lo dimostrano (il tasso di occupazione tra le donne tra i 25 e i 49 anni e con un figlio fino a sei anni si ferma al 53,9%, secondo dati Istat relativi al 2021 ed elaborati dall’Inail. La percentuale di lavoratrici senza figli sale invece al 73,9%), così come evidenziano che ha invece zero conseguenze sulla carriera maschile. La conoscenza è reticolare e questo reticolo può essere utilizzato a nostro beneficio.
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