«I vuoti normativi sono ancora molti e quella dell’influencer, come molte altre professioni del digitale, è solo una delle tante che ancora oggi non ha ricevuto delle regole adeguate». Carolina Casolo, consulente fiscale e previdenziale, fa il punto sulla condizione di molti professionisti autonomi che svolgono le loro attività in settori ancora troppo poco normati

Le professioni digitali sono gran parte del futuro del lavoro e, anche a seguito dell’accelerazione degli ultimi anni post crisi sanitaria, gli impieghi nel settore della creator e tech economy sono in aumento. Il problema è che, nel frattempo, restano una serie di zone d’ombra a livello fiscale e previdenziale e vuoti normativi che non permettono a molti professionisti di essere riconosciuti e di svolgere le proprie attività con regole chiare: parliamo di attività legate al digitale al diritto d’autore su piattaforme online come Twitch, Onlyfans & YouTube, oppure di NFT e Crypto, fino al Metaverso.

Ne abbiamo parlato con Carolina Casolo, dal 2011 consulente fiscale e previdenziale specializzata in diritto tributario e inquadramenti fisco-previdenziali, esperta di startup e delle discipline che regolano il mondo del lavoro autonomo e attualmente Senior Tax Expert in Fiscozen Spa. Casolo ha ideato il primo player digitale italiano per ottenere supporto su servizi di welfare, ed è esperta in numerosi campi ancora inesplorati.

 

Quali sono i vuoti normativi che, con l’accelerazione digitale degli ultimi anni, lasciano molti professionisti in zone d’ombra, quindi senza regole chiare e diritti?

Carolina Casolo

I vuoti che si hanno oggi in Italia riguardano in special modo la velocità con cui le nuove professioni e le attività digitali nascono, che è tale per cui gli enti preposti – nella fattispecie l’Agenzia delle Entrate – non riescono a creare normative che supportino degli adeguati inquadramenti fisco-previdenziali.

È chiaro che poi sono i professionisti a trovarsi a dover sopperire a queste mancanze, dovendo quindi applicare studi e ricerche dedicate in materia per poter fornire al cliente un inquadramento fisco-previdenziale che sia il più corretto possibile, considerando che si parte proprio da una parziale assenza di normative. Le istituzioni stanno andando molto a rilento nel riconoscere e supportare influencer, creator, performer di Only Fans o altre professioni digitali.

Oltretutto va sottolineato che non sono numerosi i consulenti specializzati nella creator economy, o che comunque abbiano avuto modo di studiare inquadramenti ad hoc per questo tipo di professioni: ne consegue che molti clienti finiscono per affidarsi a studi che si occupano spesso di questioni diverse, e ciò che può derivarne è un inquadramento errato che si traduce in un’errata iscrizione alla cassa previdenziale. Ciò si traduce in un elevato rischio di non continuità contributiva, di difficoltà di utilizzo del pacchetto welfare, in mancati adempimenti obbligatori – come le dichiarazioni OSS o IOSS – o ancora nella determinazione errata della base imponibile sui cui conteggiare le imposte.

 

La categoria degli influencer è stata quella più presa di mira negli ultimi anni. A che punto è la regolamentazione di questa professione dal punto di vista fiscale?

I vuoti normativi sono ancora molti e quella dell’influencer, come molte altre professioni digitali, è solo una delle tante che ancora oggi non ha ricevuto delle regole adeguate. Le istituzioni sono piuttosto indietro nel definire delle linee guida che regolamentino l’inquadramento fisco-previdenziale, fornendo indicazioni chiare sul codice Ateco e la cassa previdenziale, in relazione non solo alle mansioni ma anche al modello di business e alla metodologia di incasso dei compensi.

Proprio per questo motivo grazie alla collaborazione con Assoinfluencer, rappresentata dall’Avv.to Ierussi, associazione leader nel settore che supporta influencer e creator, mi sto battendo professionalmente per fornire alle commissioni tecniche un set di strumenti chiari che delineino i vari inquadramenti fisco-previdenziali correlati a ciascuna professione digitale (influencer, creator, youtuber, podcaster, eplayer, performer, gamer, streamer etc.).

 

Dalla pandemia in poi si è particolarmente intensificato il fenomeno dei “nomadi digitali”: lavoratori “senza confini”, che girano il mondo e hanno bisogno solo di un computer e uno smartphone per svolgere le proprie attività. Ma come funziona con il fisco? Dove e come pagano le tasse?

I nomadi digitali sono spesso giovani lavoratori in ambito tech che, oltre a preferire una modalità di lavoro da remoto, generalmente operano come freelance o sotto forma di collaborazioni smart e piuttosto flessibili, con maggior autonomia negli orari e nell’organizzazione dei compiti.

Nella maggior parte dei casi il nomade digitale è quindi un libero professionista con partita Iva, sottoposto per questo a degli obblighi fiscali precisi. Chi lavora in Italia è assoggettato al fisco italiano, mentre chi lavora all’estero, e lo fa per più di 183 giorni, è un residente fiscale straniero e in quel caso è necessario verificare se si tratta di un paese Ue o extra Ue.

Nel primo caso il nomade digitale può mantenere l’assoggettamento fiscale in Italia, rispettando il requisito di un domicilio fiscale in Italia e la provenienza di almeno il 75% dei ricavi da clienti italiani. Nel secondo caso, invece, è necessario aprire una posizione fiscale nel paese straniero e rivolgersi ad un professionista specializzato nell’analisi delle Convenzioni contro la doppia imposizione per non rischiare di vedere doppiamente tassati i redditi prodotti.

Inoltre sempre più spesso i nomadi digitali trascorrono 365 giorni in giro per il
mondo mantenendo una residenza anagrafica in Italia, scegliendo di vivere in specifici van attrezzati a casa-ufficio. In tal caso, per chi è in regime ordinario semplificato, e può quindi dedurre ovvero scaricare i costi in modo analitico, come si spesa l’acquisto o il noleggio di tale van? Come si deducono i costi di ammodernamento e adattamento? Purtroppo, in relazione alla figura di nomade digitale l’Agenzia delle Entrate non ha normative adeguate e il trattamento fiscale per la fattispecie precedente è assimilato a quello di uno psicologo che acquista un’auto in modalità promiscua. Insomma vogliamo normare il metaverso, ma ci mancano le basi per parlare di innovazione digitale.

 

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale sta dilagando, anche se restano molte perplessità riguardo l’impatto che avrà sul mondo del lavoro, in particolare se creativo. In che modo sarà tutelato, da oggi e nel futuro, il diritto d’autore?

Tutto ciò che entra nel merito dell’intelligenza artificiale ha risvolti molto delicati. Ad oggi non si è ancora stati in grado di normare tutte le professioni digitali esistenti, è perciò praticamente
impossibile essere in grado di prevedere una normativa sull’intelligenza artificiale, sia dal punto di vista dell’utilizzo e dell’impatto sul settore fiscale-previdenziale, ma anche del lavoro in quanto
tale. Alla fine il discorso finisce sempre sulla competizione dell’AI con l’essere umano, quindi sulla delicata questione delle tutele giuslavoriste, in particolare per ciò che riguarda la questione del diritto d’autore.

Questo in particolare è un tema che si sta iniziando ad affrontare sempre più spesso in quanto
numerosi applicativi che ricorrono all’intelligenza artificiale impattano anche su settori ed attività che richiedono un’iscrizione all’albo; a questo punto è chiaro che la problematica che porta in essere la questione del diritto d’autore, della proprietà intellettuale e della necessità di essere in possesso di un titolo specifico per svolgere attività definite vada ad ingigantirsi nel suo rapporto con l’AI. In questo momento non è presente nessun tipo di normativa, né è possibile trovare molte informazioni nel merito che aiutino i professionisti a districarsi: a mio avviso è probabile che Agenzia delle Entrate si ritroverà a breve a brancolare nel buio, anche riguardo i possibili interpelli in relazione all’AI. Oltretutto vorrei sottolineare che, secondo la proposta del nuovo Governo, da quest’anno gli interpelli saranno a pagamento, quindi siamo in attesa di scoprire il tipo di output che il governo Meloni proporrà in relazione a questi temi così specifici.

È di pochi giorni fa la notizia di un palpabile interesse da parte dell’Agenzia delle Entrate per l’utilizzo dell’ AI. Avendo già a disposizione le informazioni della Sose, la società pubblica che gestiva prima gli studi di settore e ora le pagelle fiscali, e quelle dell’Anagrafe tributaria, come quelle sulla fattura elettronica e i corrispettivi telematici, l’intenzione è di fare un passo in più ed utilizzare l’AI, per cui ci si sta già attrezzando, in termini anche predittivi. La si usa prima di normarla…

 

Che ne pensi della riforma fiscale che sta mettendo a punto il governo con l’intenzione di tagliare le tasse e colmare la «disuguaglianza tributaria»?

Secondo diversi analisti i vantaggi li vedranno soltanto i più ricchi. Ritengo che, tanto quanto quella varata dal governo Draghi lo scorso anno, con il passaggio da cinque a quattro scaglioni di reddito, anche la riforma Meloni non avrà alcun tipo di impatto. Concordo in questo senso con la maggioranza degli analisti, secondo le cui proiezioni saranno le persone con un’alta redditività a trarre dei benefici, mentre chi gode di un reddito medio non avrà veri e propri recuperi in termini di vantaggio fiscale, ovvero per ciò che riguarda il cash flow finanziario. Diciamo che che avrebbero potuto esserci numerose proposte attuabili, che avrebbero portato a maggiori benefici.

Un esempio lampante riguarda l’accesso al regime agevolato fiscale forfettario: eliminando infatti il requisito di chi già presenta un reddito subordinato superiore a 30 mila euro lordi annui, e perciò permettendo l’accesso al regime forfettario, magari con un’aliquota del 15% invece che del 5%, il contribuente avrebbe potuto aprire un’attività autonoma più facilmente, da cui sarebbe derivato di conseguenza un maggior gettito fiscale. Al contrario proporre l’obbligo, laddove si abbia un reddito subordinato superiore ai 30 mila euro lordi annui, di accedere al regime ordinario semplificato con una necessaria cumulabilità dei redditi (dipendente più autonomo) porta ad una tassazione molto alta e un conguaglio fiscale sulla busta paga che rende il tutto disincentivante ai fini imprenditoriali per il contribuente e ai fini di raccolta di maggior gettito fiscale per lo stato. Ogni anno però ci vediamo riproposta più o meno la solita e inutile minestra riscaldata.

 

Al suo interno ci saranno anche nuove regole per il concordato preventivo che potrebbero interessare 2 milioni di partite Iva e 6.200 imprese. Ci spieghi di che si tratta?

In modo semplice e schematico possiamo riassumere questa misura come uno strumento che
consente a imprese e professionisti di piccole dimensioni di definire in modo preventivo quale sia la base imponibile su cui verranno applicate imposte come quelle sui redditi e l’Irap stesso, per cui il maggiore o minore ricavo poi effettivamente conseguito diventa irrilevante a fini fiscali.

L’Agenzia delle Entrate, quindi, prende appositi accordi con il professionista o l’impresa in base
all’analisi sul fatturato e in base a dati precisi disponibili agli enti preposti che
dimostrano qual sia la storia fiscale del soggetto. Potremmo interpretare questa riforma come un derivato degli ISA, cioè gli ex studi di settore. Si tratta di un’operazione che consente a professionisti e imprese di accedere ad un possibile sconto fiscale per la durata di due anni. Tuttavia, date le perplessità intorno a questa misura, presto potrebbe cambiare. Potrebbe quindi arrivare un nuovo sistema di controlli, e il concordato preventivo potrebbe essere disposto su basi diverse.

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