Carlo Alberto Bertozzi è il presidente del gruppo Mra, che da Barilla in poi, da 35 anni fa da tramite tra le aziende italiane del food e il mercato Usa, contribuendo all’esplosione del Made in Italy. A Dealogando spiega perché ora il nostro export può diventare il volano dell’economia italiana
Barilla, Mutti, Garofalo, Parmacotto, Parmareggio, Saclà, Illy, Kimbo. Sono tutti grandi marchi italiani che spopolano negli Stati Uniti anche grazie al lavoro del gruppo fondato da Carlo Alberto Bertozzi alla fine degli anni ’80, Mra, una società che ormai da 35 anni fa da tramite tra il mercato del food italiano e quello americano, occupandosi di consulenza, logistica e vendite. Con risultati importanti, tant’è che il fatturato è aumentato esponenzialmente, assieme al successo del cibo made in Italy negli Usa.
Il food, d’altronde, è uno degli elementi fondamentali del Made in Italy, tra i pochi settori che sta letteralmente volando negli ultimi mesi, assieme al turismo e alla manifattura, trascinando il nostro Pil sopra lo zero nonostante le difficoltà. A settembre 2022 l’export delle nostre eccellenze ha raggiunto numeri record, con l’undicesimo progresso consecutivo a doppia cifra e quasi 10 miliardi di valore aggiunto rispetto a un anno prima.
Bertozzi, nato a Parma da una famiglia che gestiva una ditta di formaggi, è diventato negli anni alla guida di Mra il vero e proprio Re Mida del food italiano negli Stati Uniti: quel che tocca la sua azienda diventa oro. Ora ci racconta perché per il nostro Made in Italy le condizioni del mercato americano sono più favorevoli che mai, nonostante inflazione e tensioni geopolitiche. L’Italia, dice, dovrebbe puntare su questo fronte ancora di più, considerandolo come vero e proprio volano della sua economia.
Dott. Bertozzi, cos’è e come nasce il gruppo Mra?
Mra è un gruppo che fornisce tutti i servizi di cui hanno bisogno le aziende italiane per l’export del nostro cibo negli Stati Uniti: dalla parte amministrativa alla fatturazione, passando per la raccolta dei pagamenti. Seguiamo circa una dozzina di società.
Questa attività è iniziata quasi 40 anni fa quando, dopo essere venuto negli Usa per dirigere la società Mares, con un gruppo di amici decisi di uscire e fondare il gruppo. In tutti quegli anni avevo visto che fine fanno le aziende europee che vengono in America. Soprattutto nel food venivano considerate in modo tradizionale e non funzionava.
In questo settore l’Italia ha veramente qualcosa da dire e non si possono solo prendere in carica i prodotti, portarli negli Usa e farli commerciare nei punti vendita. Bisogna saperli raccontare e gestirli a 360° e noi questo abbiamo fatto, cercando di valorizzare la varietà del cibo italiano.
È la varietà più che la sola qualità del nostro cibo che fa impazzire gli americani?
Esatto. Anche in America, a dispetto di quel che si pensa di solito, si sa produrre dell’ottimo cibo. La diversità è che i nostri alimenti sono fatti di grandi tradizioni e questo interessa ai cosiddetti foodies, un termine che abbiamo inventato per indicare quelle 50 milioni di persone che oggi in America vanno pazzi per il cibo buono.
Nelle famiglie americane di solito il food non è così importante come in quelle italiane, non c’è quella tradizione agricola che dà spazio a ciò che è naturale e fresco. Non c’è quindi la filosofia del cibo di qualità, che migliora la salute fisica e mentale, rendendoci più felici.
Da qui l’interesse per questo modo di intendere l’alimentazione e l’esperienza del mangiare, con una ricerca che è esplosa proprio negli ultimissimi anni.
Come siete riusciti voi di Mra a valorizzare il patrimonio del food made in Italy?
Direi che è stata la nostra piccola rivoluzione. Si è sempre importato cibo italiano, pasta o conserva di pomodoro italiane negli Stati Uniti, ma non si apprezzava la specialità. Della serie: perché un parmigiano italiano dovesse essere più buono di un parmesan del Wisconsin non si era mai capito.
Noi abbiamo cominciato tutto con Barilla. Ci siamo buttati e abbiamo iniziato a puntare sulla loro pasta. Oggi Barilla fa 700-800 milioni di dollari di fatturato e ha due stabilimenti. Da lì in poi è stato un crescendo. Abbiamo deciso di rendere le aziende italiane sostanzialmente indipendenti dagli importatori americani, che per lo più han sempre fatto un servizio molto discutibile.
Per far diventare le aziende italiane dirette esportatrici le trasformiamo in “americane”: costituiamo la filiale e la società americana, che importa direttamente dalla cugina italiana. In questo modo il mercato degli Stati Uniti diventa domestico e si ragiona con la testa di qua. Ci sono casi, poi, in cui i prodotti italiani vengono prodotti direttamente in America.
Dal 2020, però, prima c’è stata la crisi del Covid e ora quella dell’inflazione e del caro-energia. Il made in Italy, in ogni caso, dagli ultimi dati sembra resistere. Come è possibile?
Sicuramente il combinato disposto di queste crisi ha prodotto effetti pesanti. Il Covid è stato difficile da superare. All’inizio della pandemia, poi, c’era ancora Trump e con la sua politica dei dazi sulle importazioni di molti prodotti italiani per sei, sette mesi è stato un disastro, con molte aziende nel panico.
Poi fortunatamente il presidente è cambiato e i dazi sono spariti. In ogni caso dalla pandemia, grazie all’interesse crescente per i nostri prodotti, come Italia siamo usciti bene. Ad agosto 2022 Mra ha registrato che quello del food, come tutti i settori del Made in Italy, ha continuato a registrare aumenti, con le vendite negli Usa del settore agroalimentare in salita del 13,1%. Oggi siamo al quinto posto per esportazione di cibo in America, anche se con la crisi energetica il costo di alcuni prodotti è aumentato enormemente.
Ora comunque la situazione va normalizzandosi: non risentiamo particolarmente dell’inflazione perché il foody medio non bada a spese, è abbastanza facoltoso.
In questi mesi, tuttavia, sembra tornare la competizione tra Stati Uniti ed Europa sul cosiddetto ‘Piano Ira’. Temete che le tensioni economiche e politiche possano trasferirsi sul piano commerciale e tornare a colpire le esportazioni di cibo?
Per ora le aziende italiane che esportano dall’Italia vanno molto meglio dell’anno scorso. Non vedo tensioni all’orizzonte e c’è invece molto interesse da parte di tante aziende italiane a venire qui. Ci sono condizioni migliori: l’inflazione statunitense è più bassa di quella europea e il cambio euro-dollaro è diventato decisamente più vantaggioso.
Secondo Mra il food Made in Italy può essere un traino per il Pil italiano in un momento difficile per la nostra economia?
Secondo me sì, moltissimo. Vale la pena puntarci ora e l’obiettivo ambizioso che ci dobbiamo porre nei prossimi anni è portare gli appassionati di cibo italiano negli Stati Uniti da 50 a 100 milioni. Ci sono tante cose che si potrebbero fare, a partire da un coinvolgimento maggiore delle agenzie dello Stato italiano nella promozione delle nostre eccellenze.
E i cosiddetti cibi sintetici o quelli elaborati dagli insetti, a cui recentemente ha iniziato ad aprire l’Unione europea, sono davvero un pericolo per il nostro Made in Italy come sostiene il governo Meloni?
L’argomento non ci ha mai toccato e non ho sentito preoccupazioni dalle aziende che seguiamo. Invece aggiungo: quello che aiuterebbe a far volare ancora di più il nostro Made in Italy sarebbe la maggiore integrazione commerciale tra il nostro Continente e quello americano.
Insomma, una sorta di nuovo Ttip (quel trattato commerciale tra Unione europea e Usa proposto nel 2013 che è stato bloccato in Europa per paura che i nostri standard qualitativi sul cibo si abbassassero)?
Potrebbe essere una buona strada, noi italiani avremmo tutto da guadagnare. C’è gente che viene in Italia dagli Stati Uniti solo per mangiare e fare il giro dei ristoranti. L’interesse è forte.
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